La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha riconosciuto a favore delle donne vittime di violenza domestica oppure esposte al rischio della stessa di poter beneficiare della protezione internazionale.
Si tratta della sentenza resa dalla Corte nella causa C-621/21, chiamata a valutare il caso di una donna straniera che, costretta a sposarsi dalla sua famiglia di origine, era stata picchiata e minacciata dal marito al punto tale che, temendo per la propria vita, era fuggita in Bulgaria dove poi aveva fatto domanda per il riconoscimento della protezione internazionale.
La protezione sussidiaria
Lo status di protezione sussidiaria rappresenta un’accezione ulteriore del concetto di protezione internazionale e si pone in una chiave complementare e supplementare rispetto al riconoscimento dello status di rifugiato.
La protezione sussidiaria è stata introdotta per la prima volta grazie alla Direttiva 2004/83/CE, ha durata quinquennale e può essere rinnovata.
La protezione sussidiaria viene riconosciuta nei confronti di tutte quelle persone che non rientrino nella definizione di rifugiato, ma che abbiano diritto alla protezione internazionale.
La persona ammessa alla protezione sussidiaria è un qualunque cittadino di un paese terzo che non possieda i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se facesse ritorno nel Paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno.
Pensiamo a quanti correrebbero il rischio di essere giustiziati e condannati a morte, o che potrebbero subire trattamenti inumani o degradanti.
Il caso e il rischio di violenza nel Paese d’origine
La Corte di Giustizia Ue ha reso noto nel suo comunicato stampa ufficiale che i fatti di causa traggono origine dalla richiesta di protezione internazionale presentata da una cittadina turca rifugiatasi nella capitale bulgara.
La donna, di origine curda, di confessione musulmana, denunciava di essere stata costretta a fuggire dal proprio Paese d’origine perchè vittima di violenza domestica e di temere per la propria vita.
L’istante infatti raccontava di essere stata costretta dalla sua famiglia a sposare un uomo e che questi, nel corso del matrimonio, aveva ripetutamente picchiato, umiliato e minacciato di morte la donna.
Dopo aver ottenuto il divorzio, la cittadina turca sarebbe poi fuggita in Bulgaria dove poi avrebbe fatto domanda di protezione internazionale.
Il giudice bulgaro, con rinvio pregiudiziale, ha rimesso la questione dinanzi alla CGUE, richiedendo così i chiarimenti interpretativi necessari alla stregua dell’applicazione della normativa comunitaria, e cioè se la protezione sussidiaria possa ritenersi applicabile anche alle donne in fuga perchè vittime di violenza domestica.
Cos'è il rinvio pregiudiziale alla CGUE
Tra i compiti della Corte di Giustizia dell’Unione europea vi è anche la possibilità di emanare pronunce pregiudiziali rispondendo all’esigenza di interpretare il diritto.
I giudici nazionali, ovvero quelli degli Stati membri Ue, nell’ambito di una controversia rimessa alla loro valutazione, possono interpellare i giudici europei per ottenere chiarimenti e interpretazioni sulla validità di un atto o di una normativa dell’Unione europea.
Questo perchè i giudici nazionali hanno il compito di applicare correttamente il diritto sovranazionale, evitando contrasti normativi.
La Corte di Giustizia Ue non risolve la controversia in questione, ma spetta comunque al giudice nazionale risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte.
Tuttavia, quanto viene deciso dai giudici della Corte è vincolante anche per tutti gli altri giudici nazionali.
La decisione della CGUE
Secondo la Sentenza della Corte (Grande Sezione) emessa il 16 gennaio 2024
“Le donne, nel loro insieme, possono essere considerate come appartenenti a un gruppo sociale ai sensi della direttiva 2011/95 e beneficiare dello status di rifugiato qualora siano soddisfatte le condizioni previste da tale direttiva”.
La Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta, stabilisce le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria.
Da un lato, lo status di rifugiato è previsto in caso di persecuzione di qualunque cittadino di un paese terzo per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale.
Dall’altro, invece, la protezione sussidiaria è prevista per qualunque cittadino di un paese terzo che non possieda i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se fosse rinviato nel paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno, il che include segnatamente l’essere giustiziato e trattamenti inumani o degradanti.
La Corte sostiene che la Direttiva in questione debba essere interpretata alla luce della Convenzione di Istanbul e che, in quanto tale, riconosce la violenza di genere perpetrata contro le donne una vera e propria forma di persecuzione.
Le donne vittime di violenza domestica – “anche in caso di minaccia effettiva di essere uccise o di subire atti di violenza da parte di un membro della loro famiglia o della loro comunità, a causa della presunta trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali” è quanto deciso dalla Corte – possono beneficiare dello status di rifugiato e, qualora le condizioni per il riconoscimento dello stesso non siano bastevoli, possono ottenere la protezione sussidiaria.