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19 Dicembre 2023
17:00

Cassazione: nell’assegno di divorzio va considerata anche la convivenza

Con la storica sentenza del 18 dicembre 2023, n. 35385, la Corte di cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che, ai fini della determinazione dell’assegno di divorzio, va considerato l’apporto fornito alla vita matrimoniale di ciascuno dei coniugi, ma va valutata anche la fase relativa alla convivenza, che ha preceduto il matrimonio.

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Cassazione: nell’assegno di divorzio va considerata anche la convivenza
Avvocato
divorzio

Con la storica sentenza del 18 dicembre 2023, n. 35385, la Corte di cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che, ai fini della determinazione dell’assegno di divorzio, va considerato l’apporto fornito alla vita matrimoniale di ciascuno dei coniugi, ma va valutata anche la fase relativa alla convivenza, che ha preceduto il matrimonio.

Le norme vanno infatti interpretate in senso evolutivo, i giudici devono adeguare le loro pronunce al mutare dei tempi, e la convivenza attualmente è sempre più diffusa.

Le Sezioni Unite Civili hanno enunciato il seguente principio:

Ai fini dell’attribuzione e della quantificazione, ai sensi dell’art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, dell’assegno divorzile, avente natura, oltre che assistenziale, anche perequativo-compensativa, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi a una convivenza prematrimoniale della coppia, avente i connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche, laddove emerga una relazione di continuità tra la fase «di fatto» di quella medesima unione e la fase «giuridica» del vincolo matrimoniale, va computato anche il periodo della convivenza prematrimoniale, ai fini della necessaria verifica del contributo fornito dal richiedente l’assegno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi, occorrendo vagliare l’esistenza, durante la convivenza prematrimoniale, di scelte condivise dalla coppia che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare, con accertamento del relativo nesso causale, sacrifici o rinunce, in particolare, alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio”.

I fatti di causa

La Corte d’appello di Bologna riformava parzialmente la decisione di primo grado relativa al divorzio tra due ex coniugi, con cui era stata assegnata la casa coniugale alla ex moglie ed era stato posto a carico dell’ex marito un assegno divorzile di € 1.600,00 mensili e un contributo al mantenimento del figlio di € 700,00 mensili, oltre il 100% delle spese straordinarie.

I giudici d’appello riducevano la misura dell’assegno divorzile in euro € 400,00 mensili e quella del contributo paterno al mantenimento del figlio a € 400,00 mensili.

I giudici d’appello rilevavano, infatti, che il reddito attuale dell’ex marito non poteva essere determinato in € 10.000,00 mensili (come ritenuto dal Tribunale) ma, anche se lo stesso era maggiore rispetto a quanto dichiarato al fisco, poteva essere stimato, tenuto conto delle spese dallo stesso sostenute, in “almeno 2.500,00 euro mensili”.

La Corte territoriale rilevava che la ex moglie era invece priva di redditi da lavoro, non aveva lavorato, sia prima che dopo le nozze “per l’agiatezza che proveniva dalla sua famiglia d’origine, non per essersi dedicata interamente alla cura del marito e del figlio”.

Secondo la Corte, infatti, “non risultava dagli atti che ella avesse sacrificato aspirazioni personali e si fosse dedicata soltanto alla famiglia, rinunciando ad affermarsi nel mondo del lavoro”.

Ciò, avuto solo riguardo al periodo di “durata legale del matrimonio”, dal novembre 2003 al 2010, e non anche al periodo anteriore, dal 1996, di convivenza prematrimoniale, “poiché gli obblighi nascono dal matrimonio e non dalla convivenza”.

La donna, all’epoca delle nozze, nel 2003, aveva già lasciato il suo lavoro da tempo e il marito, a fine 2003, aveva cessato il suo lavoro che comportava diversi spostamenti, di conseguenza la necessità di seguire il marito nelle trasferte non poteva aver costituito la ragione o l’unica ragione dell’abbandono del lavoro da commessa.

Avverso la pronuncia in appello veniva proposto ricorso per cassazione.

Con ordinanza interlocutoria, la Prima Sezione civile della Corte di cassazione, ritenuta la questione di massima di particolare importanza, a norma dell'art. 374 c.p.c., comma 2, rimetteva la causa alla Prima Presidente di questa Corte, per le valutazioni di sua competenza in ordine alla possibile assegnazione della controversia alle Sezioni unite per la sua soluzione.

Con decreto della Prima Presidenza veniva disposta la trattazione del procedimento in udienza pubblica, dinanzi alle Sezioni Unite.

La sentenza della Corte di cassazione a Sezioni Unite

La Corte di cassazione a Sezioni Unite ha in primo luogo ricordato la normativa di riferimento.

L’art. 5, comma 6 , l.898/1970, come modificata per effetto della Novella del 1987 n. 74, dispone che: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Come ha specificato la Corte, il testo della norma prevede, innanzitutto, che il giudice tenga sempre conto:

  • “delle condizioni dei coniugi”; 
  • “delle ragioni della decisione”;
  • “del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi”.

Tutti questi elementi devono essere valutati anche con riguardo alla durata del rapporto.

Successivamente, il giudice potrà disporre l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando questi non abbia mezzi adeguati.

Il valore della convivenza nel nostro ordinamento

A questo punto la Cassazione ha richiamato anche la legge n. 76/2016, con cui è stata riconosciuta la convivenza di fatto tra due persone, sia eterosessuali che omosessuali.

Secondo quanto disposto dal comma 36: “si intendono per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile”.

Il giudice, su istanza di una delle parti, può stabilire il diritto del convivente di ricevere dall’altro gli alimenti, in caso di cessazione della convivenza e gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza.

La determinazione dell’assegno divorzile

Quanto all’assegno divorzile, le Sezioni Unite (sentenza n. 11490 del 29.11.1990) avevano affermato che “l’assegno periodico di divorzio, nella disciplina introdotta dall'art. 10 della legge 6 marzo 1987 n. 74, modificativo dell’art. 5 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, ha carattere esclusivamente assistenziale (di modo che deve essere negato se richiesto solo sulla base di premesse diverse, quale il contributo personale ed economico dato da un coniuge al patrimonio dell’altro), atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio. 

Ove sussista tale presupposto, la liquidazione in concreto dell’assegno deve essere effettuata in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri enunciati dalla legge (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio), con riguardo al momento della pronuncia di divorzio. A quest’ultimo fine, peraltro, il giudice del merito, purché ne dia adeguata giustificazione, non è tenuto ad utilizzare tutti i suddetti criteri, anche in relazione alle deduzioni e richieste delle parti, salva restando la valutazione della loro influenza sulla misura dell’assegno stesso (che potrà anche essere escluso sulla base della incidenza negativa di uno o più di essi)”.

Tale orientamento, ha specificato la Corte, negli anni successivi è rimasto pressoché pacifico sino all’arresto del 2017 (Cass. 10.5.017 n. 11504) poiché la Cassazione ha mutato il parametro dell’adeguatezza dei mezzi: è stato infatti affermato che tali mezzi sono “adeguati”, in ossequio al principio di autoresponsabilità, se consentono l’ “indipendenza o autosufficienza economica”, indipendentemente dal tenore di vita dovuto durante il matrimonio.

Nel 2018, vi è stato il nuovo intervento delle Sezioni Unite (Sez.Un. n. 11.7.2018 n. 18287), il giudice deve accertare l’adeguatezza dei mezzi “attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tener conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto”.

Le Sezioni unite del 2018 hanno evidenziato come “l’autoresponsabilità – cui nella sentenza della Prima civile del 2017 si era dato centrale rilievo – deve infatti percorrere tutta la storia della vita matrimoniale e non comparire solo al momento della sua fine: dal primo momento di autoresponsabilità della coppia, quando all’inizio del matrimonio (o dell’unione civile) concordano tra loro le scelte fondamentali su come organizzarla e le principali regole che la governeranno; alle varie fasi successive, quando le scelte iniziali vengono più volte ridiscusse ed eventualmente modificate, restando l’autoresponsabilità pur sempre di coppia. Quando poi la relazione di coppia giunge alla fine, l’autoresponsabilità diventa individuale, di ciascuna delle due parti: entrambe sono tenute a procurarsi i mezzi che permettano a ciascuno di vivere in autonomia e con dignità, anche quella più debole economicamente. Ma non si può prescindere da quanto avvenuto prima dando al principio di autoresponsabilità un’importanza decisiva solo in questa fase, ove finisce per essere applicato principalmente a danno della parte più debole”.

La valutazione della convivenza ai fini della determinazione dell’assegno divorzile

Le Sezioni unite hanno dunque accolto il primo motivo di ricorso, con cui si prospettava che la Corte d’appello avesse trascurato di considerare, “quanto al contributo dato al nucleo familiare dalla ex moglie, anche con la messa a disposizione di ricchezze provenienti dalla propria famiglia d’origine, oltre che attraverso il ruolo svolto di casalinga e madre, il periodo (nella specie settennale, dal 1996 al 2003) continuativo e stabile di convivenza prematrimoniale (nell’ambito del quale era nato il figlio, nel 1998), con una motivazione lacunosa e contra legem”.

La ricorrente, infatti, si duoleva dell’omessa considerazione da parte della Corte d’appello del periodo di sette anni (dal 1996 al 2003) di convivenza prematrimoniale, durante il quale era nato anche il figlio della coppia, poiché “non vi sarebbero differenze tra il comportamento dei coniugi nella fase prematrimoniale e in quella coniugale, soprattutto con riguardo alle scelte comuni di organizzazione della vita familiare e riparto dei rispettivi ruoli”.

Per le Sezioni Unite, infatti, “convivenza e matrimonio sono comunque modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale, anche a seguito della cessazione dell’unione istituzionale e dell’unione di fatto”.

Ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile, dunque, “l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente, prescritto ai fini della prima operazione, deve aver luogo mediante complessiva ponderazione dell’intera storia familiare, in relazione al contesto specifico, e una valutazione comparativa delle condizioni economico patrimoniali delle parti, che tenga conto anche del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all'età dello avente diritto, tutto ciò in conformità della funzione non solo assistenziale, ma anche compensativa e perequativa dell'assegno divorzile, discendente direttamente dal principio costituzionale di solidarietà”.

Per la Corte, infatti, “la convivenza prematrimoniale è ormai un fenomeno di costume sempre più radicato nei comportamenti della nostra società cui si affianca «un accresciuto riconoscimento – nei dati statistici e nella percezione delle persone – dei legami di fatto intesi come formazioni familiari e sociali di tendenziale pari dignità rispetto a quelle matrimoniali» (così ord. interlocutoria n. 30671).

E costantemente si ripresenta, soprattutto nella materia del diritto di famiglia, l’esigenza che la giurisprudenza si faccia carico dell’evoluzione del costume sociale nella interpretazione della nozione di «famiglia», concetto caratterizzato da una commistione intrinseca di «fatto e diritto», e nell’interpretazione dei vari modelli familiari”.

In definitiva, “Non si tratta, quindi, di introdurre una, non consentita, «anticipazione» dell’insorgenza dei fatti costitutivi dell’assegno divorzile, in quanto essi si collocano soltanto dopo il matrimonio, che rappresenta, per l’appunto, il fatto generatore dell’assegno divorzile, ma di consentire che il giudice, nella verifica della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno al coniuge economicamente più debole, nell’ambito della solidarietà post coniugale, tenga conto anche delle scelte compiute dalla stessa coppia durante la convivenza prematrimoniale, quando emerga una relazione di continuità tra la fase «di fatto» di quella medesima unione, nella quale proprio quelle scelte siano state fatte, e la fase «giuridica» del vincolo matrimoniale”.

In definitiva, la Corte di cassazione, nel solco di quella che è la strada segnata dalla giurisprudenza degli ultimi anni, ha pienamente valorizzato anche il legame di convivenza che ha unito gli ex coniugi prima del matrimonio, ai fini della determinazione dell’assegno divorzile.

Anche durante la convivenza, infatti, i coniugi hanno effettuato scelte ed eventualmente rinunce che hanno contribuito alla costruzione del patrimonio familiare e insieme delle dinamiche, che poi si sono colorate di nuovi risvolti durante il matrimonio.

Laureata con lode in giurisprudenza presso l’Università degli studi di Napoli Federico II. Ho poi conseguito la specializzazione presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali, sono stata collaboratrice della cattedra di diritto pubblico comparato e ho svolto la professione di avvocato. Sono autrice e coautrice di numerosi manuali, alcuni tra i più noti del diritto civile e amministrativo. Sono inoltre autrice di numerosi articoli giuridici e ho esperienza pluriennale come membro di comitato di redazione. Per Lexplain sono editor per l'area "diritto" e per l'area "fisco". 
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