Nell’era della transizione digitale si pongono una serie di interrogativi sulle modalità di comunicazione, sempre più immediate, che caratterizzano il contesto lavorativo.
Spesso il datore di lavoro invia messaggi whatsapp ai dipendenti per impartire indicazioni sulle attività da svolgere oppure è lo stesso dipendente a comunicare con il datore tramite whatsapp, magari comunicando che è in malattia oppure in ferie.
Bisogna dunque stabilire che valore legale hanno i messaggi whatsapp del datore di lavoro ai dipendenti e, in generale, che rilievo giuridico assumono nelle comunicazioni di lavoro.
La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con sentenza del 27 aprile 2023, n. 11197 ha precisato che i messaggi whatsapp e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti, ai sensi dell'art. 234 cod. proc. pen.
Per la Corte di cassazione, i messaggi whatsapp possono dunque essere legittimamente acquisiti mediante la mera riproduzione fotografica, in quanto non trova applicazione né la disciplina delle intercettazioni né quella relativa all'acquisizione di corrispondenza di cui all'art. 254 cod. proc. pen.
In altra occasione, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con sentenza del 28 aprile 2023, n. 11305 si è nuovamente espressa con riguardo al valore legale dei messaggi whatsapp nell’ambito del processo penale, statuendo che i messaggi di whatsapp hanno natura di prova documentale.
In particolare, i messaggi contenuti nella memoria di un telefono cellulare devono essere considerati documenti in senso “statico” e non “dinamico”: per questo motivo differiscono dalle intercettazioni, che consistono nella captazione dei colloqui intercorrenti tra due o più persone.
Vediamo, di seguito, che valore legale hanno i messaggi whatsapp del datore di lavoro al dipendente e quando, il dipendente, può decidere di non ricevere i messaggi del datore di lavoro, e difendere il suo “diritto alla disconnessione”.
Che valore legale hanno i messaggi di whatsapp?
In base all’analisi della disciplina in tema di prova tracciata dal nostro ordinamento, può dirsi che i messaggi whatsapp, nell’ambito del processo, possono essere considerati alla stregua di prova documentale.
La disciplina in tema di prova documentale è contenuta nel Codice civile, Libro VI, Titolo II, agli artt. 2697 e ss.
Come è stato chiarito in diverse occasioni in giurisprudenza, i messaggi whatsapp possono essere ricondotti alla fattispecie delineata all’art. 2712 c.c., ovvero alle “riproduzioni meccaniche”.
Sono riproduzioni meccaniche, “le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose”.
Le riproduzioni meccaniche “formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”.
Inoltre, ai sensi dell’art. 2719 c.c.,è stabilito che “le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l'originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta”.
Sulla base di tali principi si è espressa più volte la giurisprudenza.
La Corte di Cassazione, a Sezioni unite, con sentenza del 27 aprile 2023, n. 11197 ha precisato che i messaggi whatsapp e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell'art. 234 cod. proc. pen.
Ai sensi dell’art. 234 del Codice di procedura penale, rubricato “Prova documentale”, è stabilito che: “È consentita l'acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo”.
Inoltre, “Quando l'originale di un documento del quale occorre far uso è per qualsiasi causa distrutto, smarrito o sottratto e non è possibile recuperarlo, può esserne acquisita copia”.
Infine, “È vietata l'acquisizione di documenti che contengono informazioni sulle voci correnti nel pubblico intorno ai fatti di cui si tratta nel processo o sulla moralità in generale delle parti, dei testimoni, dei consulenti tecnici e dei periti”.
Per la Corte di cassazione, i messaggi whatsapp possono dunque essere legittimamente acquisiti mediante la mera riproduzione fotografica, in quanto non trova applicazione né la disciplina delle intercettazioni né quella relativa all'acquisizione di corrispondenza di cui all'art. 254 cod. proc. pen.
Dispone, infatti, l’art. 254 c.p.p., “Presso coloro che forniscono servizi postali, telegrafici, telematici o di telecomunicazioni è consentito procedere al sequestro di lettere, pieghi, pacchi, valori, telegrammi e altri oggetti di corrispondenza, anche se inoltrati per via telematica, che l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere spediti dall'imputato o a lui diretti, anche sotto nome diverso o per mezzo di persona diversa, o che comunque possono avere relazione con il reato.
Quando al sequestro procede un ufficiale di polizia giudiziaria, questi deve consegnare all'autorità giudiziaria gli oggetti di corrispondenza sequestrati, senza aprirli (( o alterarli )) e senza prendere altrimenti conoscenza del loro contenuto.
Le carte e gli altri documenti sequestrati che non rientrano fra la corrispondenza sequestrabile sono immediatamente restituiti all'avente diritto e non possono comunque essere utilizzati”.
Sono dunque tracciate norme rigorose in tema di sequestro della corrispondenza che, per la Cassazione, non possono essere applicate ai messaggi whatsapp.
La Corte di Cassazione, a sezioni unite, con sentenza del 28 aprile 2023, n. 11305 si è nuovamente espressa con riguardo al valore legale dei messaggi whatsapp nell’ambito del processo penale.
Le Sezioni Unite hanno statuito che i messaggi di whatsapp hanno natura di prova documentale.
In particolare, i messaggi contenuti nella memoria di un telefono cellulare devono essere considerati documenti in senso “statico” e non “dinamico”: per questo motivo differiscono dalle intercettazioni, che consistono nella captazione dei colloqui intercorrenti tra due o più persone.
I messaggi di whatsapp, secondo la Cassazione, non rientrano nemmeno nella nozione di “corrispondenza”, poiché essa è la messaggistica oggetto di attività di spedizione in corso ovvero consegnata a terzi per il recapito.
Si registrano, inoltre, una serie di sentenze della Corte costituzionale che ha scandagliato il valore legale dei messaggi whatsapp.
La Corte Costituzionale, con sentenza del 28 dicembre 2023, n. 227 si è occupata del rapporto tra l’art. 68, terzo comma, Cost. che tutela la corrispondenza dei membri del Parlamento e la messaggistica whatsapp.
La Corte costituzionale ha specificato che la tutela della riservatezza dei parlamentari va garantita anche dopo la ricezione da parte del destinatario.
Gli organi inquirenti che abbiano appreso i contenuti di conversazioni scambiate dal parlamentare con il terzo proprietario tramite il dispositivo di telefonia mobile oggetto di sequestro, hanno dunque l’obbligo di sospendere l’estrazione di messaggi whatsapp dalla memoria del dispositivo e chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare.
La Corte Costituzionale, con sentenza del 27 luglio 2023, n. 170 ha inoltre chiarito che il discrimen tra le intercettazioni di comunicazioni o conversazioni e i sequestri di corrispondenza non è dato principalmente dalla forma della comunicazione, poiché le intercettazioni possono avere a oggetto anche flussi di comunicazioni non orali (informatiche o telematiche).
“Affinché si abbia intercettazione”, ha chiarito la Corte, “debbono invece ricorrere due condizioni: la prima, di ordine temporale, è che la comunicazione deve essere in corso nel momento della sua captazione da parte dell’extraneus, e va dunque colta nel suo momento “dinamico”, con conseguente estraneità al concetto dell’acquisizione del supporto fisico che reca memoria di una comunicazione già avvenuta (dunque, nel suo momento “statico”); la seconda condizione attiene alle modalità di esecuzione: l’apprensione del messaggio comunicativo da parte del terzo deve avvenire in modo occulto, ossia all’insaputa dei soggetti tra i quali la comunicazione intercorre”.
Il concetto di “corrispondenza”, per la Corte costituzionale, “è ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza”.
Per questo motivo, lo scambio di messaggi elettronici (e-mail, SMS, WhatsApp e simili), per la Corte costituzionale rappresenta, di per sé, una forma di corrispondenza agli effetti degli artt. 15 e 68, terzo comma, Cost.
La Corte costituzionale ha dunque analizzato il rapporto tra messaggi whatsapp e tutela della riservatezza.
La tutela accordata dall’art. 15 Cost., infatti, “prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero, aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata.
La garanzia si estende, quindi, ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale. Posta elettronica e messaggi inviati tramite l’applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di c.d. messaggistica istantanea) rientrano, dunque, a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi”.
Quindi, la tutela della riservatezza della comunicazione, “che nella tradizionale corrispondenza epistolare è garantita dall’inserimento del plico cartaceo o del biglietto in una busta chiusa, è qui assicurata dal fatto che la posta elettronica viene inviata a una specifica casella di posta, accessibile solo al destinatario tramite procedure che prevedono l’utilizzo di codici personali; mentre il messaggio WhatsApp, spedito tramite tecniche che assicurano la riservatezza, è accessibile solo al soggetto che abbia la disponibilità del dispositivo elettronico di destinazione, normalmente protetto anch’esso da codici di accesso o altri meccanismi di identificazione”.
Interessante anche un’altra pronuncia della Cassazione, avente a oggetto un caso in cui whatsapp era stato utilizzato per diffondere un messaggio offensivo.
La Corte di Cassazione, sezione penale, con sentenza del 14 settembre 2023, n. 37618 ha stabilito che In tema di diffamazione militare, la diffusione di un messaggio offensivo in una "chat" dell'applicazione "whatsapp" non configura l'aggravante dell'uso di un "mezzo di pubblicità", poiché si tratta di strumento di comunicazione destinato a un numero ristretto di persone e privo della necessaria diffusività.
Principio di natura opposta è stato invece stabilito con riguardo alla pubblicazione di messaggi offensivi sulla bacheca facebook, poiché tale strumento è idoneo a diffondere il messaggio nell’ambito di una platea indeterminata di soggetti.
Si può utilizzare whatsapp come mezzo di comunicazione per il lavoro?
Whatsapp viene utilizzato frequentemente come mezzo di comunicazione per il lavoro.
Il suo utilizzo attiene a una moltitudine di aspetti che riguardano la vita lavorativa dei dipendenti.
Whatsapp può essere utilizzato sia come mezzo di comunicazione con soggetti esterni che come mezzo di comunicazione tra dipendenti e tra datore di lavoro e dipendenti.
Non sempre l’utilizzo del messaggio whatsapp è tuttavia possibile o quanto meno raccomandabile nei rapporti di lavoro.
Ad esempio, in caso di licenziamento di un dipendente, per evitare contestazioni di ogni genere, sarebbe meglio evitare la comunicazione del recesso tramite messaggio whatsapp anche se la giurisprudenza di merito ha mostrato aperture in tal senso.
Solitamente, whastapp viene utilizzato dal datore per impartire indicazioni ai dipendenti sulla tipologia di attività da effettuare, mentre il dipendente lo utilizza come modo per comunicare ferie o malattie.
Vediamo cosa si può fare e cosa non si può fare tramite whatsapp.
Posso comunicare l'assenza per malattia solo via whatsapp?
Sì, secondo la giurisprudenza la comunicazione della malattia potrebbe avvenire tramite whatsapp.
Per verificare le modalità di comunicazione della malattia, tuttavia, sarebbe meglio fare riferimento alla CCNL che regolamenta il proprio rapporto di lavoro.
Solitamente, nel CCNL, viene stabilito che il lavoratore ha l’obbligo di dare comunicazione immediata della malattia, ma non è prevista la forma attraverso cui deve essere effettuata la comunicazione.
In ambito aziendale, tuttavia, viene spesso indicato al dipendente un indirizzo email a cui inviare la comunicazione relativa alle giornate di malattia e agli estremi del certificato medico.
Tuttavia, come visto in precedenza, la giurisprudenza tende a riconoscere valore legale alle comunicazioni effettuate via whatsapp, che in sostanza hanno lo stesso valore delle email.
Per questo motivo, in linea teorica, comunicare la malattia tramite whatsapp sarebbe possibile.
La Cassazione, con sentenza del 24 agosto 2022, n. 25286, si è pronunciata con riguardo al caso in cui un dipendente aveva comunicato la malattia a una collega tramite sms e per questo motivo era stato licenziato anche se successivamente aveva inviato comunicazione tramite email con relativo certificato.
La Corte ha condiviso le conclusioni sul punto della Corte d’appello che aveva rilevato che la condotta del lavoratore, anche se superficiale poiché la malattia era stata comunicata tramite messaggio a un terzo, non era tale da giustificare il licenziamento.
Il datore di lavoro può controllare i messaggi whatsapp dei suoi dipendenti?
No, il datore di lavoro non può controllare i messaggi whatsapp dei suoi dipendenti, sarebbe un’indebita intromissione nella loro sfera privata.
Il comportamento del datore di lavoro che controlla i messaggi whatsapp del dipendente, infatti, potrebbe essere ricondotto all’art. 616 c.p., che punisce il reato di violazione della corrispondenza e che prevede la pena della reclusione fino a un anno o la multa.
Se il colpevole, senza giusta causa, rivela, in tutto o in parte, il contenuto della corrispondenza, è punito, se dal fatto deriva nocumento e se non si configura un reato più grave, con la reclusione fino a tre anni.
Anche la Corte costituzionale si è pronunciata sottolineando il collegamento tra tutela della riservatezza e messaggi whatsapp.
Secondo la Consulta, infatti, la tutela accordata dall’art. 15 Cost., “prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero, aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata.
La garanzia si estende, quindi, ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale. Posta elettronica e messaggi inviati tramite l’applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di c.d. messaggistica istantanea) rientrano, dunque, a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi”.
Quindi, la tutela della riservatezza della comunicazione, “che nella tradizionale corrispondenza epistolare è garantita dall’inserimento del plico cartaceo o del biglietto in una busta chiusa, è qui assicurata dal fatto che la posta elettronica viene inviata a una specifica casella di posta, accessibile solo al destinatario tramite procedure che prevedono l’utilizzo di codici personali; mentre il messaggio WhatsApp, spedito tramite tecniche che assicurano la riservatezza, è accessibile solo al soggetto che abbia la disponibilità del dispositivo elettronico di destinazione, normalmente protetto anch’esso da codici di accesso o altri meccanismi di identificazione”.
Interessante la sentenza del Tribunale di Firenze del 16 ottobre 2019 che ha annullato il licenziamento a danno di un soggetto, il quale aveva inviato messaggi vocali contenenti affermazioni di contenuto offensivo e denigratorio nei confronti del superiore gerarchico.
I messaggi inviati nella chat di whatsapp potevano essere conosciuti solo dai partecipanti alla stessa, si trattava, dunque, di comunicazioni diffuse in un ambiente ad accesso limitato, il che, secondo il Tribunale, porta a escludere la sussistenza di una idonea modalità di diffusione denigratoria.
I messaggi vocali, pur recanti affermazioni diffamatorie e discriminatorie, non sono tuttavia sussumibili, per il Tribunale, nella fattispecie di frasi ingiuriose, discriminatorie e minacciose indirizzate a superiori o colleghi.
Tale fattispecie, infatti, presuppone l’astratta possibilità di divulgazione a un numero indeterminato di persone.
Inoltre, per il Tribunale, non è ravvisabile la violazione dell’obbligo di fedeltà nei confronti del datore di lavoro, poiché tale infedeltà va ricondotta “a condotte esteriormente oggettivabili, e da escludersi in affermazioni per loro natura destinate a restare riservate”.
Un dipendente può essere licenziato perché ha abbandonato la chat di lavoro su whatsapp?
Un dipendente non può essere licenziato perché ha abbandonato la chat di lavoro su whatsapp.
L’utilizzo di whatsapp sul proprio telefono cellulare è fondato su una scelta del tutto personale e attiene alla sfera privata del dipendente.
Le comunicazioni effettuate nell’ambito della chat aziendale, in particolare al di fuori dell’orario di lavoro, potrebbero interferire con il diritto al riposo del dipendente, costituzionalmente sancito e con la gestione della sua stessa vita privata.
L’inserimento del dipendente nell’ambito di una chat aziendale, inoltre, potrebbe rivelarsi come una forma di controllo da parte del datore di lavoro, contraria a principi basilari che sono tracciati nella Costituzione a tutela del lavoratore e, tra l’altro, nello Statuto dei lavoratori (si veda, ad esempio, art. 4 legge 20 maggio 1970, n. 300).
Il datore di lavoro non può dunque porre alla base del licenziamento l’uscita del dipendente dalla chat aziendale di whatsapp, considerato che lo stesso inserimento del lavoratore nella chat lavorativa solleva una serie di perplessità per le motivazioni sopra indicate.
Il lavoratore può essere contattato fuori dall'orario di lavoro?
No, il lavoratore non può essere contattato fuori dall’orario di lavoro.
Lo stabilisce la Costituzione a chiare lettere, all’art. 36, ultimo comma: “Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi".
Lo stabiliscono, inoltre, i Contratti collettivi che prevedono nel dettaglio orario lavorativo, ferie, permessi, riposo.
Nello stesso senso, la Dichiarazione universale dei diritti umani, all’articolo 24, stabilisce che: “Ogni individuo ha diritto al riposo e allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite”.
Il riposo è un diritto del lavoratore che non può essere negato e l’invio di comunicazioni lavorative al di fuori dell’orario di lavoro stabilito interferisce con questo essenziale diritto.
Si può bloccare il datore di lavoro che manda messaggi whatsapp fuori dall'orario di lavoro?
Il blocco del datore di lavoro che manda messaggi whatsapp fuori dall’orario di lavoro è ammissibile, poiché il lavoratore sta godendo del suo periodo di riposo, costituzionalmente tutelato.
Inoltre, decidere di bloccare qualcuno che ci contatta sul nostro telefono, e che non gradiamo, è un nostro diritto.
Non a caso, si parla, in maniera sempre più insistente del “diritto alla disconnessione” del lavoratore.
Con legge 22 maggio 2017, n. 81, accanto alle modalità di svolgimento del lavoro agile, è stato individuato il diritto alla disconnessione del lavoratore.
L'accordo relativo alla modalità di lavoro agile, infatti, deve anche individuare i tempi di riposo del lavoratore e le “misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”.
Con legge 6 maggio 2021, n. 61, di conversione del decreto legge 13 marzo 2021, n. 30, entrata in vigore il 13 maggio 2021, è stato inoltre stabilito che: “L'esercizio del diritto alla disconnessione, necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore, non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”.
Nel Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile viene poi stabilito che: “La prestazione di lavoro in modalità agile può essere articolata in fasce orarie, individuando, in ogni caso, in attuazione di quanto previsto dalle disposizioni normative vigenti, la fascia di disconnessione nella quale il lavoratore non eroga la prestazione lavorativa. Vanno adottate specifiche misure tecniche e/o organizzative per garantire la fascia di disconnessione”.
Il Parlamento europeo, con Risoluzione del 21 gennaio 2021 recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione ha enunciato importanti principi sulla questione.
Ha infatti sottolineato il Parlamento europeo che l'uso degli strumenti digitali a scopi lavorativi “può avere anche effetti negativi, che risultano tra l'altro in un orario di lavoro più lungo inducendo i lavoratori a lavorare al di fuori dell'orario di lavoro, in una maggiore intensità di lavoro nonché in confini meno netti tra orario di lavoro e tempo libero”.
Tali strumenti digitali, dunque, “se il loro uso non è limitato esclusivamente all'orario di lavoro, possono interferire nella vita privata dei lavoratori”.
Inoltre, “Per i lavoratori con responsabilità di assistenza non retribuite gli strumenti digitali possono rendere particolarmente difficile il conseguimento di un sano equilibrio tra vita professionale e vita privata. Le donne dedicano più tempo a tali responsabilità di assistenza, lavorano meno ore in un'occupazione retribuita e possono rinunciare completamente al posto di lavoro”.
Infine “Gli strumenti digitali utilizzati a scopi lavorativi possono creare una pressione e uno stress costanti, avere un impatto negativo sulla salute fisica e mentale e sul benessere dei lavoratori e condurre a malattie psicosociali o altre malattie professionali, come l'ansia, la depressione, il burnout, lo stress da tecnologia, disturbi del sonno e muscoloscheletrici”.
Il diritto alla disconnessione, dunque, “consiste nel diritto dei lavoratori di non svolgere mansioni o comunicazioni lavorative al di fuori dell'orario di lavoro per mezzo di strumenti digitali, come telefonate, email o altri messaggi. Il diritto alla disconnessione dovrebbe consentire ai lavoratori di scollegarsi dagli strumenti lavorativi e di non rispondere alle richieste del datore di lavoro al di fuori dell'orario di lavoro, senza correre il rischio di subire conseguenze negative, come il licenziamento e altre misure di ritorsione”.
Per tutti questi motivi bloccare il proprio datore di lavoro che, al di fuori dell’orario di lavoro, continua a inviare messaggi whatsapp e a esercitare una pressione non consentita, è lecito: è, in particolare, un modo per far valere i propri diritti.
Licenziamento tramite whatsapp: è legittimo?
Nell’era digitale ci si chiede se sia legittimo licenziare un dipendente tramite whatsapp.
La giurisprudenza ha dato risposta affermativa a questa domanda.
Il Tribunale di Catania, sez. lavoro, con ordinanza del 27 giugno 2017, si è infatti espresso in tal senso.
Per il Tribunale, infatti, il recesso intimato a mezzo whatsapp appare assolvere l'onere della forma scritta “trattandosi di documento informatico che parte ricorrente ha con certezza imputato al datore di lavoro, tanto da provvedere a formulare tempestiva impugnazione stragiudiziale”.
La Suprema Corte ha infatti evidenziato che "In tema di forma scritta del licenziamento prescritta a pena di inefficacia, non sussiste per il datore di lavoro l'onere di adoperare formule sacramentali" potendo "la volontà di licenziare… essere comunicata al lavoratore anche in forma indiretta, purché chiara" (Cass. civ. sez. lav., 13 agosto 2007, n. 17652).
Per il Tribunale di Catania, dunque, “La modalità utilizzata dal datore di lavoro, nel caso di specie, appare idonea ad assolvere ai requisiti formali in esame, in quanto la volontà di licenziare è stata comunicata per iscritto alla lavoratrice in maniera inequivoca, come del resto dimostra la reazione da subito manifestata dalla predetta parte”.