Il dipendente pubblico che non timbra il cartellino per uscire in pausa pranzo può subire il licenziamento disciplinare, poiché ha falsamente attestato la presenza in servizio.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sezione lavoro, con sentenza del 2 novembre 2023, n. 30418, e ha chiarito che anche la mancata registrazione delle uscite in pausa pranzo tramite badge costituisce falsa attestazione della presenza in servizio con modalità fraudolente e può determinare il licenziamento, seppur la condotta del dipendente non si risolva in una alterazione o manomissione del sistema automatico di rilevazione delle presenze.
La Corte di cassazione, in particolare, ha stabilito i seguenti principi:
“In tema di licenziamento disciplinare (prima e dopo l'introduzione dell'art. 55-quater, comma 1-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001), costituisce ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio con modalità fraudolente non soltanto l‘alterazione o la manomissione del sistema automatico di rilevazione delle presenze, ma anche la mancata registrazione delle uscite interruttive del servizio, senza che la tipizzazione della sanzione determini alcun automatismo espulsivo, rimanendo affidata al giudice di merito la verifica della proporzionalità e dell'adeguatezza del provvedimento disciplinare. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto il licenziamento misura proporzionata ed adeguata perché la lavoratrice si era allontanata dal posto di lavoro senza procedere alla timbratura in una pluralità di occasioni, restando irrilevante che ciò fosse accaduto in coincidenza con la pausa pranzo)”.
Vediamo in dettaglio cosa ha stabilito la Cassazione, in cosa consiste il reato di falsa attestazione della presenza in servizio e quali conseguenze implica anche con riguardo all’aspetto dei danni che vanno risarciti allo Stato.
I fatti di causa
Una collaboratrice amministrativa veniva licenziata dal MIUR per non aver timbrato il cartellino durante le sue uscite in pausa pranzo.
La lavoratrice si rivolgeva al Tribunale che respingeva il ricorso con cui la dipendente aveva impugnato il licenziamento.
La collaboratrice, allora, proponeva appello ma la Corte d'Appello di Brescia lo rigettava.
Si pronunciava, a questo punto, la Corte di cassazione.
La sentenza della Corte di cassazione sul licenziamento disciplinare per l’uscita in pausa pranzo senza timbrare il badge
Secondo la collaboratrice amministrativa, in particolare, non vi era stata alcuna disfunzione del servizio lavorativo, poiché le sue uscite erano sempre avvenute durante la pausa pranzo.
Per la Corte, le motivazioni addotte dalla ricorrente non sono fondate.
Nella specie, viene in rilievo il licenziamento disciplinare per falsa attestazione della presenza sul luogo di lavoro, che però non è attuato mediante materiale alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza, ma, come ha rilevato la Cassazione, "con altre modalità fraudolente" e cioè con la mancata timbratura dell'uscita dall'ufficio, non autorizzata.
La condotta di rilievo disciplinare contemplata dal Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55 quater, lettera a), infatti, non implica un'attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, in quanto è sufficiente che sia in modo oggettivo idonea a indurre in errore il datore di lavoro, sicché, ha specificato la Cassazione, “anche l'allontanamento dall'ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale (Cass. n. 17367 del 2016 e Cass. n. 25750 del 2016)”.
L'articolo 55 quater, al comma 1 bis – introdotto con il decreto n. 116 del 2016, dispone che: "costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso".
La Cassazione ha precisato che la disposizione ha, dunque, introdotto una tipizzazione di illecito disciplinare che va sanzionata con il licenziamento.
In particolare, la Cassazione ha precisato che la disposizione in questione non ha portata innovativa, ma vale come interpretazione chiarificatrice del concetto di "falsa attestazione di presenza".
E' falsa attestazione, infatti, “non solo la alterazione/manomissione del sistema automatico di rilevazione delle presenze, ma anche il non registrare le uscite interruttive del servizio”.
Una volta che risulti provata la condotta, il giudice deve valutare la proporzionalità o adeguatezza della sanzione irrogata al lavoratore.
Il giudice, in sostanza, deve valutare la gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e alle circostanze del caso.
Quanto al caso in questione, è stato effettivamente accertato dalla Guardia di finanza che le uscite della collaboratrice amministrativa coincidevano con l'orario della pausa pranzo e si erano protratte per un tempo coincidente con la durata della pausa di almeno trenta minuti, prevista dal CCNL comparto scuola per i lavoratori che prestano servizio in modo continuativo per un tempo superiore a 7 ore e 12 minuti.
Tuttavia, questo fatto, secondo la Corte, non vale a giustificare le condotte tenute dall'appellante.
Questo poiché, il CCNL non esonera il dipendente dall'incombenza di effettuare la timbratura per uscire in pausa pranzo, ma prevede, al contrario, l'obbligo di rispettare l'orario e di non assentarsi dal luogo di lavoro senza l'autorizzazione del dirigente scolastico.
In sostanza, per la Corte, la condotta negligente della lavoratrice è grave per le modalità con cui è stata realizzata, e “lede irrimediabilmente il vincolo fiduciario con l'amministrazione datrice di lavoro”.
Per questo motivo, per la Corte è proporzionata la sanzione del licenziamento disciplinare.
Nello stesso senso si è espressa la stessa Corte quando ha stabilito che “la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro (cfr., Cass., n. 8816 del 2017)”.
Di conseguenza, la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso e ha condannato la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio di cassazione di Euro 4.000,00 per compensi professionali oltre spese prenotate a debito.
Falsa attestazione della presenza in servizio: il d.lgs. 165/2001
Il decreto legislativo del 30 marzo 2001, n. 165, all’art. 55-quater, rubricato: “Licenziamento disciplinare”, prevede alcune ipotesi peculiari di licenziamento disciplinare in tema di pubblico impiego.
Tra queste, alla lettera a è prevista l’ipotesi di: “falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia”.
Al comma 1-bis, è inoltre specificato che “Costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso. Della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta”.
Inoltre, al comma 3-bis, è specificato che la falsa attestazione della presenza in servizio, accertata in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze, determina l'immediata sospensione cautelare senza stipendio del dipendente, fatto salvo il diritto all'assegno alimentare, senza obbligo di preventiva audizione dell'interessato.
La sospensione viene disposta con provvedimento motivato, in via immediata e comunque entro quarantotto ore.
Il dipendente è convocato, per il contraddittorio a sua difesa, con un preavviso di almeno quindici giorni.
L'Ufficio conclude il procedimento entro trenta giorni dalla ricezione, da parte del dipendente, della contestazione dell'addebito.
Che cosa si intende per falsa attestazione della presenza in servizio
Come chiarito dalla giurisprudenza e come stabilito dalla legge, per falsa attestazione in servizio si intende ogni genere di modalità fraudolenta posta in essere, anche con la collaborazione di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione circa il rispetto dell'orario di lavoro.
Della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta.
Falsa attestazione della presenza in servizio: flagranza
Al comma 3-bis dell’art. 55 quater è specificato che la falsa attestazione della presenza in servizio, accertata in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze, determina l'immediata sospensione cautelare senza stipendio del dipendente, fatto salvo il diritto all'assegno alimentare, senza obbligo di preventiva audizione dell'interessato.
La flagranza, dunque, permette all’amministrazione di sospendere immediatamente il dipendente senza stipendio.
Falsa attestazione della presenza in servizio: le sanzioni
In ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio si rischiano le seguenti sanzioni:
disciplinari (ad esempio il licenziamento);civili;penali.
Vediamo in dettaglio cosa si rischia se si attesta falsamente la propria presenza in servizio.
Falsa attestazione della presenza in servizio: il reato
All’art. 55-quinquies dello stesso decreto legislativo n. 165/2001, vengono previste le conseguenze penali in caso di false attestazioni o certificazioni.
Viene infatti stabilito che, fermo quanto previsto dal codice penale, il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, attraverso l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente oppure giustifica un’assenza mediante una certificazione medica falsa o falsamente attestante uno stato di malattia commette reato.
La pena è quella della reclusione da uno a cinque anni e della multa da Euro 400 a Euro 1600.
Interessante una recente sentenza della Corte di cassazione, la n. 40461 del 7 settembre 2023 con cui è stato stabilito che: “La falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata anche a prescindere dal danno economico corrispondente alla retribuzione erogata per una prestazione lavorativa inferiore a quella dovuta, incidendo sull'organizzazione dell'ente, mediante la arbitraria modifica degli orari prestabiliti di presenza in ufficio, e compromettendo gravemente il rapporto fiduciario che deve legare l'ente al suo dipendente. In motivazione, la Corte ha precisato che di tali aspetti del danno il giudice deve tener conto anche al fine di valutare la sussistenza dell'attenuante di cui all'articolo 62 c.p., comma 1, n. 4. Negli stessi termini Sez. 2, n. 34773, del 17/6/2016, Rv. 267855; Sez. 2, n. 6512, del 12/2/1985, Rv. 169953)”.
Falsa attestazione della presenza in servizio: la pena
Chi commette il reato di falsa attestazione della presenza in servizio di cui all’art. 55 quinquies della legge n. 165/2001, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400 ad euro 1.600.
La medesima pena si applica al medico e a chiunque altro concorre nella commissione del delitto.
Falsa attestazione della presenza in servizio: la giurisprudenza sui danni
Ferme la responsabilità penale e disciplinare e le relative sanzioni, il lavoratore è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, che, secondo quanto stabilito all’art. 55 quinquies della legge 165/2001, è “pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché il danno d'immagine”.
Interessante l’analisi della casistica giurisprudenziale sul tema.
Con sentenza n. 229/2023, ad esempio, la Corte dei conti ha precisato che con l’art. 55 quinquies: “Il legislatore ha dunque ritenuto, fin dal 2009, di disegnare, con riguardo al danno derivante da assenteismo fraudolento di dipendenti pubblici, una disciplina speciale e derogatoria rispetto a quella comune, prevedendo un'autonoma ipotesi di perseguibilità del danno all'immagine della Pubblica amministrazione, attualmente svincolata dal previo accertamento con sentenza passata in giudicato di un reato contro la pubblica amministrazione”.
Con sentenza n.313/2020, la Corte ha inoltre stabilito che in tema di falsa attestazione della presenza in servizio del dipendente pubblico, non sussiste il danno patrimoniale quando “l’Ente di appartenenza abbia posto in essere, tempestivamente, iniziative volte ad evitare il perpetrarsi dell’illecito, quali la disposta sospensione per tre mesi dal servizio, impedendo, conseguentemente, una possibile compensazione del “debito orario” mensile e/o giornaliero con le ore di presenza illecitamente attestate dal dipendente e l’erogazione del compenso a titolo di straordinario per le ore predette”.
Per quanto riguarda le altre voci di danno, la Corte dei conti, ha riconosciuto la sussistenza del danno da disservizio: “che nel caso di specie è consistito nel pregiudizio arrecato all’Ente dai maggiori costi sostenuti per l’attivazione (e conclusione) del procedimento disciplinare apertosi nei confronti del dipendente, con conseguente distrazione di risorse ed energie lavorative dell’Amministrazione dal perseguimento dei fini propri e senza alcuna utilità per l’ Ente danneggiato”.
Sul danno all’immagine la Corte ha infine stabilito che: “Sussiste il danno all’immagine della pubblica amministrazione cagionato dal pubblico dipendente che abbia falsamente attestato la propria presenza in servizio, a prescindere dal livello di diffusione della notizia dell’illecito tramite i “mass media”, che nel caso di specie è stata divulgata solo all’interno dell’Amministrazione, poiché tale ultimo aspetto incide sulla misura del danno e non sulla sua intrinseca sussistenza. La quantificazione del danno all’immagine va effettuata in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., applicando gli indicatori di lesività elaborati dalla consolidata giurisprudenza in materia”.
Il testo integrale della sentenza
Di seguito, il testo integrale della sentenza:
Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza del 2 novembre 2023, n, 30418
sul ricorso 30464-2022 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL'ISTRUZIONE, in persona del Ministro pro tempore, UFFICIO SCOLASTICO REGIONALE PER LA LOMBARDIA in persona del legale rappresentante pro tempore, UFFICIO SCOLASTICO – AMBITO TERRITORIALE DI CREMONA UFFICIO VI in persona del legale rappresentante pro tempore, tutti rappresentati e difesi ope legis dall'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domiciliano in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI n. 12;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 114/2022 della CORTE D'APPELLO di BRESCIA, depositata il 14/07/2022 R.G.N. 287/2021;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/09/2023 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA MARIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d'Appello di Brescia, con la sentenza n. 114 del 2022, ha rigettato l'appello proposto da (OMISSIS) nei confronti del MIUR, dell'Ufficio scolastico territoriale di Brescia, nonche' dell'Ufficio scolastico regionale della Lombardia, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Cremona.
Il giudice di primo grado aveva respinto il ricorso con il quale la lavoratrice, collaboratrice amministrativa presso l'Istituto (…), aveva impugnato il licenziamento disciplinare che le era stato irrogato dal MIUR il 4 aprile 2019.
Il Tribunale aveva evidenziato che le condotte ascritte alla dipendente, che in cinque occasioni nell'anno 2017 si era allontanata dall'istituto (…) per tutta la durata della pausa pranzo senza strisciare il badge sia all'uscita che al rientro, non erano contestate nella loro materialita' e integravano la fattispecie di cui al Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55-quater.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la lavoratrice prospettando un motivo di ricorso.
Resiste il MIUR con controricorso.
Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte che ha confermato nella discussione in udienza pubblica.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Con l'unico motivo di ricorso e' dedotta la violazione ed errata applicazione delle norme di diritto di cui agli articoli 2106, 2119 e 1455 c.c., della norma di cui al Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55-quater, comma 1, lettera a), commi 1-bis e 3, cosi' come da modifiche di cui al Decreto Legislativo n. 116 del 2016, dell'articolo 12 del CCNL Comparto istruzione e ricerca triennio 2016-2018, nonche' degli articoli 3 e 35 Cost., in relazione all'articolo 360 c.p.c., n. 3.
La ricorrente afferma che la Corte d'Appello ha applicato l'articolo 55-quater, comma 1, lettera a), commi 1-bis e 3, e ha richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui e' da escludere qualsiasi automatismo nell'irrogazione della sanzione disciplinare espulsiva, ma erroneamente non avrebbe considerato gli elementi diretti ad attenuare l'intensita' dell'elemento soggettivo e la gravita' del comportamento assunto dalla lavoratrice in relazione alla sanzione disciplinare comminata.
La lavoratrice riporta in sintesi il contenuto delle disposizioni richiamate, rilevando che il giudice di secondo grado nell'effettuare la sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa di recesso, avrebbe dovuto attenersi ad un giudizio rispettoso dei valori dell'ordinamento esistenti nella realta' sociale.
La Corte d'Appello non aveva fatto alcuna specifica valutazione della concretezza degli effetti addebitati alla lavoratrice.
La ricorrente ricorda che il procedimento disciplinare era conseguito ad indagini rivolte ad altri dipendenti.
Ne' vi era stato alcuna disfunzione del servizio lavorativo.
Il risarcimento del danno richiesto dalla Pubblica amministrazione era stato ridotto a 1.000 Euro con la sentenza pronunciata dalla Corte dei conti.
L'affermata gravita' della condotta illecita contestata alla lavoratrice si poneva, dunque, in contrasto con gli articoli 35 e 3 Cost., atteso che il licenziamento costituisce estrema ratio.
Circa la dichiarata malafede della lavoratrice in ordine all'uscita da scuola in pausa pranzo, la Corte appariva disinvolta nel giudizio, la versione proposta dalla ricorrente, ed esprimendo in tal modo l'incompletezza di quella necessaria verifica che avrebbe dovuto porre in essere.
Nella specie, non poteva ravvisarsi la gravita' della condotta illecita che, ai sensi degli articoli 2106, 2119 e 1455 c.c., puo' consentire il licenziamento.
Il motivo non e' fondato.
Nella specie viene in rilievo il licenziamento disciplinare per falsa attestazione della presenza sul luogo di lavoro, concretizzatasi non gia' mediante materiale alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza, bensi' "con altre modalita' fraudolente" e cioe' la mancata timbratura dell'uscita dall'ufficio, non autorizzata.
Questa Corte, nell'interpretare il Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55 quater, lettera a), ha affermato che la condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un'attivita' materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall'altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicche' anche l'allontanamento dall'ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalita' fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale (Cass. n. 17367 del 2016 e Cass. n. 25750 del 2016).
Dell'articolo 55 quater, il comma 1 bis – introdotto con il decreto n. 116 del 2016, illustra che "costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalita' fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta attivita' lavorativa circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso".
La giurisprudenza di legittimita' ha gia' avuto modo di affermare (Cass. n. 17600 del 2021) che il legislatore del 2009, con il Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55-quater, fermi gli istituti piu' generali del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, ha introdotto e tipizzato alcune ipotesi di infrazione particolarmente gravi e, come tali, ritenute idonee a fondare un licenziamento.
La disposizione ha, dunque, introdotto una tipizzazione di illecito disciplinare da sanzionarsi con il licenziamento.
In particolare, questa Corte ha affermato che (Cass. n. 22075 del 2018) l'introduzione del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55-quater, comma 1-bis (avvenuta con il Decreto Legislativo n. 116 del 2016) non ha portata innovativa, ma vale come interpretazione chiarificatrice del concetto di "falsa attestazione di presenza".
E' falsa attestazione (prima e dopo la riforma) non solo la alterazione/manomissione del sistema automatico di rilevazione delle presenze, ma anche il non registrare le uscite interruttive del servizio. Nell'eventuale contrasto tra legge e contrattazione collettiva prevale – in quanto imperativa – la disciplina legale, anche se meno favorevole al lavoratore.
A fronte di una fattispecie legale, si pone, quindi, il problema di verificare i principi che il giudice deve applicare nel valutare la legittimita' della sanzione irrogata dall'Amministrazione, una volta accertato che il lavoratore abbia commesso una delle mancanze previste dalla norma, e pertanto se il licenziamento sia una conseguenza automatica e necessaria, ovvero se l'amministrazione conservi il potere-dovere di valutare l'effettiva portata dell'illecito tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e, quindi, di graduare la sanzione da irrogare, potendo ricorrere a quella espulsiva solamente nell'ipotesi in cui il fatto presenti i caratteri propri del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento.
Sul punto si e' affermato (Cass., n. 18326 del 2016) che la norma cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravita' della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, mentre consente la verifica, caso per caso, della sussistenza dell'elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se ricorrono elementi che assurgono a scriminante della condotta.
Ferma la tipizzazione della sanzione disciplinare (licenziamento) una volta che risulti provata la condotta, permane la necessita' della verifica del giudizio di proporzionalita' o adeguatezza della sanzione che si sostanzia nella valutazione della gravita' dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso.
La disposizione normativa e' stata, dunque, interpretata (si v., Cass., n. 14199 del 2021) alla luce dello sfavore manifestato dalla giurisprudenza costituzionale rispetto agli automatismi espulsivi e, pertanto, si e' valorizzato il richiamo testuale all'articolo 2106 c.c., per limitare l'imperativita' assoluta espressa dalla norma al rapporto fra legge e contratto collettivo e per affermare che l'esercizio del potere datoriale resta comunque sindacabile da parte del giudice quanto alla necessaria proporzionalita' della sanzione espulsiva (nella citata sentenza si rimanda alla giurisprudenza richiamata da Corte Cost. n. 123 del 2020 che, valorizzando questa interpretazione costituzionalmente orientata, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 55 quater, prospettata dal giudice rimettente).
La Corte d'Appello di Brescia ha affermato che, sotto il profilo oggettivo della condotta, seppure le assenze non registrate, accertate dalla Guardia di Finanza, coincidevano effettivamente con l'orario della pausa pranzo e si fossero protratte per un tempo sostanzialmente coincidente con la durata della pausa di almeno trenta minuti, prevista dal CCNL comparto scuola per i lavoratori che prestano servizio in modo continuativo per un tempo superiore a 7 ore e 12 minuti (articolo 51), cio' non valeva a giustificare le condotte tenute dall'appellante.
Ed infatti il CCNL la' dove afferma il diritto alla pausa pranzo non esonera il dipendente dall'incombenza di effettuare la timbratura quando interrompe il servizio per usufruire della pausa pranzo. Anzi, il CCNL relativo al comparto scuola per il quadriennio 2006-2009 ha previsto (articolo 92, lettera g) l'obbligo di rispettare l'orario di lavoro e di adempiere alle formalita' previste per la rilevazione delle presenze e di non assentarsi dal luogo di lavoro senza l'autorizzazione del dirigente scolastico.
La Corte d'Appello ricorda che il piano di lavoro del personale ATA per l'a.s. 2016/2017, inoltre, ribadiva che l'accertamento della presenza sul posto di lavoro del personale doveva avvenire tramite la timbratura elettronica del badge personale, che nel caso di dimenticanza del badge bisognava segnalare tempestivamente la cosa al DGSA (chiariva, altresi', che l'uscita durante l'orario di lavoro doveva essere preventivamente autorizzata dal DGSA e che in caso contrario il dipendente sarebbe stato considerato assente ingiustificato). Per di piu', dalla comunicazione n. 98 del 17.01.2009 risultava che il personale ATA dell'Istituto (OMISSIS) fosse stato specificamente informato delle modalita' di utilizzo del badge e dell'obbligo di procedere alla timbratura in ogni occasione di assenza dal luogo di lavoro per motivi personali.
Pertanto, la Corte d'Appello ha affermato che, in sostanza, le condotte tenute dalla lavoratrice non possono essere giustificate o comunque valutate con minor rigore solo perche' poste in essere in coincidenza dell'orario della pausa pranzo, atteso che era chiara a tutto il personale l'esistenza dell'obbligo di procedere alla timbratura anche nel caso di assenza per recarsi a pranzo.
Tale statuizione attua correttamente i principi sopra richiamati in quanto la Corte d'Appello non ha tratto l'intenzionalita' della condotta fraudolenta della lavoratrice dalla circostanza in se' dell'uscita dall'ufficio in mancanza
di previa autorizzazione e timbratura, che costituisce violazione presuntivamente grave, ma ha effettuato il contestuale e non frazionato esame degli elementi dedotti dalla lavoratrice e non contestati nella loro materialita', diretti a vincere tale presunzione, in particolare la coincidenza con la pausa pranzo, escludendone con specifiche argomentazioni la rilevanza.
La Corte d'Appello ha, dunque, affermato che la condotta negligente della lavoratrice, reiterata e grave per le modalita' con le quali e' stata realizzata, lede irrimediabilmente il vincolo fiduciario con l'amministrazione datrice di lavoro e giustifica la massima sanzione espulsiva.
Cio', in coerenza con la giurisprudenza di questa Corte secondo cui la modesta entita' del fatto addebitato non va riferita alla tenuita' del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che puo' assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonche' all'idoneita' a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro (cfr., Cass., n. 8816 del 2017).
Quindi, correttamente la Corte d'Appello non ha ritenuto dirimente la prospettazione della minima misura del danno economico, parametrato alla retribuzione indebitamente maturata durante le uscite dalla scuola per motivi personali, attesa la gravita' dell'inadempimento commesso dalla dipendente e il rilevante danno all'immagine dell'Amministrazione affermato anche dalla Corte dei conti.
Il ricorso deve essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio di cassazione che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da' atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis, se dovuto.