La Corte costituzionale, con la sentenza del 22 gennaio 2024, n. 7 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione alla disciplina in tema di licenziamenti illegittimi contenuta nel Jobs Act (Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23).
Vediamo in dettaglio cosa ha stabilito la Consulta.
I fatti di causa
Con ordinanza del 16 aprile 2023, la Corte d’appello di Napoli, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, in riferimento agli artt. 3, 4, 10, 24, 35, 38, 41, 111, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi due in relazione all’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 e all’art. 24 della Carta sociale europea, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30.
Il giudizio nel corso del quale sono state sollevate tale questioni riguarda l’impugnazione di un licenziamento, intimato in data 1° luglio 2016, a una lavoratrice assunta in data 1° maggio 2016, a conclusione di una procedura di licenziamento collettivo per riduzione del personale avviata ai sensi degli artt. 4 e 24, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223.
Il licenziamento è stato impugnato per violazione della procedura e per la non corretta applicazione dei criteri di scelta.
La sentenza della Corte costituzionale
Le censure di illegittimità costituzionale erano relative, in particolare, al regime sanzionatorio del licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, intimato a lavoratori assunti dopo la data di entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, che ha soppresso la reintegrazione come conseguenza dell’illegittimità di tale fattispecie di licenziamento.
Per la Corte remittente si sarebbe verificata, in sostanza, una diseguaglianza a seguito dell'eliminazione della tutela reintegratoria nel posto di lavoro che, invece, permane ancora per i lavoratori assunti prima di tale data.
Per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, dunque, vi sarebbe come unica conseguenza del recesso datoriale la previsione di una compensazione monetaria mentre la Corte d’appello auspicherebbe la reintroduzione della reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato anche nella fattispecie oggetto del giudizio principale.
La Corte d’appello ha dunque censurato, con riferimento agli indicati parametri, l’eliminazione della reintegrazione:
- perché prevista dal legislatore delegato al di fuori di quanto indicato nella legge di delega e quindi con eccesso di delega sotto un profilo interno ed uno sovranazionale;
- perché determina una disciplina ingiustificatamente e irragionevolmente differenziata, in riferimento allo stesso licenziamento collettivo, tra lavoratori “giovani” (con anzianità a partire dal 7 marzo 2015) e quelli “anziani” (assunti prima della data suddetta), i quali invece possono essere reintegrati nel posto di lavoro in caso di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta;
- infine perché, comunque, il solo indennizzo, senza la reintegrazione, non costituirebbe una sanzione adeguata e sufficientemente dissuasiva dei licenziamenti illegittimi.
Il quadro normativo di riferimento
Prima di esaminare tutti i profili di censura mossi dalla Corte di Appello di Napoli, la Consulta ha ritenuto di effettuare un excursus relativo al quadro normativo di riferimento.
Come ha ricordato la Corte, la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, misura di tutela fortemente innovativa, fu introdotta dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori e costituiva, all’epoca, un completamento della disciplina dei licenziamenti individuali illegittimi perché ingiustificati o perché discriminatori.
L’ambito applicativo della reintegrazione è risultato successivamente ampliato sia ad opera della giurisprudenza, sia da una prima riforma legislativa dell’art. 18 statuto lavoratori.
In particolare, è stata prevista la reintegrazione anche nel caso di licenziamento collettivo illegittimo dall’art 24 della legge n. 223 del 1991, in attuazione della direttiva 75/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi.
Tuttavia, ha sottolineato la Consulta, “in epoca più recente, l’ampiezza applicativa della reintegrazione, che pareva una conquista irretrattabile di tutela nei confronti dei licenziamenti illegittimi, è stata messa in discussione e sull’art. 18 statuto lavoratori, divenuto argomento divisivo e controverso anche nel dibattito tra le forze politiche e sociali, si sono appuntate per un verso pressioni riformatrici in favore di una maggiore flessibilità in uscita dal posto di lavoro, coniugate a politiche attive di sostegno, per l’altro resistenze, soprattutto nel mondo sindacale, per conservare la tutela reintegratoria”.
Si è dunque giunti alla legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita).
L’art. 18 statuto lavoratori è stato ulteriormente modificato e, ha sottolineato la Corte, soprattutto, “frantumato” “in plurimi regimi di tutela nei confronti del licenziamento individuale illegittimo, superando quella che fino ad allora era stata l’unicità della tutela reintegratoria per i licenziamenti individuali e collettivi”.
In particolare, la ratio delle riforme intervenute, ha chiarito la Corte, risiede nella constatazione che “non tutti i licenziamenti illegittimi sono uguali”.
Ha infatti sottolineato la Consulta che, il legislatore del 2012 ha inteso riservare la tutela della reintegrazione ai licenziamenti la cui illegittimità è conseguenza di una violazione, in senso lato, “più grave”, mentre per gli altri è stata prevista una compensazione indennitaria.
In definitiva “Si introduce, quindi, un inedito criterio di graduazione e di differenziazione che modifica radicalmente la logica precedente della reintegrazione quale conseguenza unica del licenziamento illegittimo nelle realtà occupazionali non piccole”.
A seguito di due pronunce di illegittimità costituzionale (sentenze n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022), la linea di demarcazione tra l’area della tutela reintegratoria e quella della tutela solo compensativa attualmente è tracciata “in termini più netti, dipendendo tout court dall’inesistenza, o no, del giustificato motivo oggettivo allegato dal datore di lavoro quale causale del recesso”.
Anche la disciplina dei licenziamenti collettivi illegittimi è stata novellata dalla stessa legge n. 92 del 2012 “la quale, in sintonia con il ridimensionamento della reintegrazione quanto ai licenziamenti individuali, ha parimenti operato una differenziazione altresì per i licenziamenti collettivi, escludendo la reintegrazione nel caso in cui la illegittimità consisteva nella violazione delle regole del procedimento (di derivazione europea), ma conservandola nel caso di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, legali o previsti da accordi sindacali: violazione ritenuta evidentemente “più grave”.
Successivamente, con il Jobs Act, la tutela reintegratoria, è stata ulteriormente ridimensionata nel caso di licenziamento per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo ed è stata del tutto eliminata in ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il d.lgs. n. 23 del 2015 ha modificato anche la disciplina del licenziamento collettivo, sempre limitatamente ai lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti, e ha soppresso la tutela reintegratoria prevedendo solo quella indennitaria anche nel caso di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, legali o previsti da accordo sindacale.
La tutela reintegratoria per i licenziamenti collettivi è stata salvata in caso di licenziamento intimato senza l’osservanza della forma scritta.
Sulla tutela indennitaria hanno inoltre inciso le sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020.
La tutela indennitaria ne è risultata, dunque, ampliata, “nella misura in cui l’indennizzo è ora fissato in una forbice tra un minimo e un massimo e non è più quantificato in modo rigido unicamente secondo la progressione lineare dell’anzianità di servizio”.
Ha dunque concluso la Consulta: “si passa dal regime ampio ed uniforme della tutela reintegratoria, in vigore per molti anni (dal 1970 fino al 2012), ad uno differenziato secondo la “gravità”, in senso lato, della violazione che inficia la legittimità del licenziamento (intimato dopo il 18 luglio 2012) e, per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, ulteriormente differenziato con un maggiore restringimento dell’area della tutela reale e ampliamento di quella indennitaria, quest’ultima poi rinforzata in termini quantitativi dal d.l. n. 87 del 2018, come convertito (e quindi a partire dal 12 agosto 2018)”.
Le questioni di legittimità costituzionale
La prima questione di legittimità costituzionale analizzata dalla Corte riguarda una potenziale violazione della delega, poiché quest’ultima aveva previsto l’eliminazione della tutela reintegratoria, con previsione della sola tutela indennitaria, unicamente per i “licenziamenti economici”, e tali sarebbero, secondo la Corte rimettente, quelli individuali “economici” ovvero per giustificato motivo oggettivo e non anche i licenziamenti collettivi per riduzione di personale.
Per la Consulta tale questione non è fondata.
Le censure mosse richiedono l’interpretazione del sintagma “licenziamenti economici” che, secondo la Corte costituzionale, “presenta un’intrinseca ambiguità perché atecnico, nel senso che non appartiene al lessico giuridico in senso stretto”.
Secondo la Corte, in particolare, “se il licenziamento collettivo mantiene da sempre una disciplina autonoma e costituisce una fattispecie di recesso distinta rispetto ai licenziamenti individuali, tale autonomia si giustifica per la preminenza di un interesse pubblico al previo confronto sindacale per ridurre e governare l’impatto sociale delle crisi occupazionali e non contraddice la qualificazione del recesso datoriale come licenziamento economico, in quanto fondato sul dato oggettivo della riduzione di personale per “ragioni di impresa”.
Si ha quindi che il sintagma “licenziamenti economici” può comunque riferirsi, nel linguaggio comune, ai licenziamenti per motivi economici, come tali sia individuali (per giustificato motivo oggettivo), sia collettivi (per riduzione di personale)”.
Il sintagma “licenziamenti economici”, in definitiva, non sarebbe riferibile ai soli licenziamenti individuali.
Ad avviso della Corte rimettente, il Jobs act incorrerebbe nell’eccesso di delega anche nella parte in cui, essendo prescritta, per l’esercizio del potere legislativo delegato, la “coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali”, sarebbe stato violato l’art. 24 della Carta sociale europea, che riconosce “il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”.
La violazione vi sarebbe poiché l’indennizzo monetario sarebbe determinato con un criterio rigido che non ne garantirebbe l’adeguatezza, né la funzione dissuasiva del licenziamento illegittimo.
Anche sotto questo ulteriore profilo la questione, secondo la Corte costituzionale, non è fondata.
Premesso che la Carta sociale europea, nel quadro generale del sistema multilivello dei diritti fondamentali, vale, secondo la Consulta, come parametro interposto ex art. 117, primo comma Cost..
La Corte, chiamata a scrutinare l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 per contrasto con gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione anche all’art. 24 CSE, ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale con sentenza n. 194 del 2018 “nella parte in cui prevedeva l’automatismo di un’indennità fissa e crescente in funzione della sola anzianità di servizio, mentre ha ritenuto lo stesso indennizzo conforme ai parametri costituzionali, anche a quello interposto (l’art. 24 CSE), nella parte in cui esso risulta fissato nella soglia massima di ventiquattro (ora trentasei) mensilità, sul presupposto che tale risarcimento non contrasti con la nozione di adeguatezza già elaborata in precedenti decisioni (sentenze n. 235 del 2014, n. 303 del 2011, n. 482 del 2000 e n. 132 del 1985)”.
Dunque, “a seguito di questa complessiva reductio ad legitimitatem, il criterio di quantificazione dell’indennizzo è risultato conforme al canone di adeguatezza del risarcimento da licenziamento illegittimo già elaborato alla luce della richiamata giurisprudenza di questa Corte, sicché va escluso che il legislatore delegato, nel prevedere un indennizzo determinato entro un limite minimo e massimo, abbia violato la delega ponendosi in contrasto con il citato parametro interposto”.
La Corte ha inoltre precisato che “è ben possibile una tutela più ampia e più incisiva, come quella sollecitata dal Comitato europeo dei diritti sociali nella citata decisione dell’11 febbraio 2020. Ma appartiene alle scelte di politica sociale, rientranti nella discrezionalità del legislatore fissare il sistema di contrasto dei licenziamenti illegittimi nella gamma di quelli che, pur in misura diversa e con differente incisività, rispondono tutti, nel loro complesso, al canone costituzionale di adeguatezza e sufficiente dissuasività”.
Non fondata è, secondo la Consulta, anche la seconda questione sollevata in riferimento agli artt. 3, 4 e 35 Cost.
In particolare, in ordine alla dedotta violazione dell’art. 3 Cost., per la Corte “non è ravvisabile alcun profilo di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà del diverso trattamento sanzionatorio previsto per gli assunti prima e dopo il 7 marzo 2015”.
Questo poiché, secondo la giurisprudenza della Corte se “il principio di eguaglianza esprime un giudizio di relazione in virtù del quale a situazioni eguali deve corrispondere l’identica disciplina e, all’inverso, discipline differenziate andranno coniugate a situazioni differenti, ciò equivale a postulare che la disamina della conformità di una norma a quel principio deve svilupparsi secondo un modello dinamico, incentrandosi sul “perché” una determinata disciplina operi, all’interno del tessuto egualitario dell’ordinamento, quella specifica distinzione, e quindi trarne le debite conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo”.
E, sulla ragionevolezza del criterio di applicazione temporale del regime introdotto dal d.lgs. n. 23 del 2015 ai soli lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, la Consulta si è già pronunciata con riferimento ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ritenendo non fondata l’analoga censura di violazione dell’art. 3 Cost.
Per la Corte “Il diverso trattamento sanzionatorio modulato dal d.lgs. n. 23 del 2015 per i licenziamenti individuali non viola il principio di uguaglianza, trovando il regime temporale un motivo non irragionevole nella finalità perseguita dal legislatore, «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione”.
Tale conclusione vale anche con riferimento ai licenziamenti collettivi, “sussistendo la stessa logica di gradualità dell’applicazione della nuova normativa”.
Le norme censurate, secondo la Corte, non violano neppure gli artt. 4 e 35 Cost., in relazione al fatto che ai lavoratori “giovani” (quelli assunti a partire dal 7 marzo 2015) esse riconoscerebbero una tutela inadeguata e non dissuasiva, come tale insufficiente.
Ha specificato la Corte “Il dubbio che rimedi diversi dalla reintegra siano inidonei ad assicurare una piena ed efficace tutela ai lavoratori arbitrariamente licenziati ed assunti dopo il 7 marzo 2015 è contraddetto dalla costante giurisprudenza di questa Corte che, pur segnalando che la garanzia del diritto al lavoro impone l’adozione di temperamenti al potere di recesso del datore di lavoro, individua nella tutela reale solo uno dei modi per realizzare la garanzia del diritto al lavoro (sentenze n. 183 del 2022, n. 150 del 2020, n. 194 del 2018 e n. 46 del 2000), spettando al legislatore modulare il sistema delle tutele «nell’esercizio della sua discrezionalità e della politica economico-sociale che attua», in considerazione del contesto economico e sociale di riferimento (sentenza n. 2 del 1986)”.
Non fondata, per la Corte, è anche la terza questione, sollevata con riferimento a plurimi parametri (artt. 3, 4, 35, 38, 41 e 117 Cost.), che riguardano una censura unitaria di insufficienza di una tutela meramente indennitaria, quindi senza reintegrazione.
Quanto ai meccanismi di tutela del lavoratore nel caso di licenziamento illegittimo, infatti, la stessa giurisprudenza ha valorizzato la discrezionalità del legislatore in materia, “evidenziando che quello della tutela reale non costituisce l’unico paradigma possibile”.
In particolare, la Consulta, “ha ritenuto compatibile con la Carta fondamentale una tutela meramente monetaria, purché improntata ai canoni di effettività e di adeguatezza, rilevando che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., «terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore», non impone «un determinato regime di tutela» (sentenza n. 194 del 2018)”.
In definitiva, la Corte costituzionale ha così concluso:
- ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 sollevate, in riferimento agli artt. 10, 24 e 111 della Costituzione;
- ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, sotto il profilo della violazione dei criteri di delega, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183, e all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30;
- ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, sotto il profilo della disparità di trattamento, in riferimento agli artt. 3, 4 e 35 Cost.;
- ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, sotto il profilo dell’inadeguata tutela, in riferimento agli artt. 3, 4, 35, 38, 41 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 CSE.