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12 Ottobre 2023
17:00

Le Sezioni unite sul danno da emotrasfusione

La Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza del 6 luglio 2023, n. 19129 si è espressa in ordine all'efficacia probatoria del verbale redatto dalla Commissione medica nell'ambito di un giudizio inerente ai danni da emotrasfusione.

Le Sezioni unite sul danno da emotrasfusione
Avvocato
danno da emotrasfusione

Le Sezioni Unite Civili, con sentenza del 6 luglio 2023, n. 19129 si sono espresse in ordine al valore probatorio del verbale redatto dalla Commissione medica, con riguardo a un giudizio avente a oggetto il risarcimento del danno derivante da trasfusione con sangue infetto.

Secondo la Corte, il verbale della Commissione medica fa prova dei fatti che la commissione attesta, al pari di ogni altro atto redatto da un pubblico ufficiale.

Il fatto

Tizio, a seguito di incidente stradale, veniva ricoverato d’urgenza dal 6 maggio al 7 giugno 1988 e veniva sottoposto a intervento chirurgico, durante il quale si rendeva necessaria la trasfusione di un’unità di sangue, fatto che veniva attestato nella cartella clinica.

Nel settembre del 2004, su consiglio del medico di fiducia, Tizio si sottoponeva ad accertamenti, che evidenziavano un’infezione da virus dell’HIV.

Successivamente la Commissione medica riconosceva a Tizio l’invalidità totale e permanente, ex artt. 2 e 12 della legge n. 118/1971.

Il giudice d’appello aveva ritenuto infondato il terzo motivo dell’appello principale, con il quale il Ministero aveva riproposto l’eccezione di prescrizione. La Corte distrettuale, aveva infatti stabilito che la prescrizione decorre dal momento in cui la malattia viene percepita, quale danno conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, e nella fattispecie la consapevolezza della nesso causale tra patologia e trasfusione risalente all’anno 1988 si era avuta solo nel 2004, a seguito esami richiesti dal medico curante.

La Corte d’appello aveva inoltre statuito che l’accertamento della riconducibilità del contagio all'emotrasfusione compiuto dalla Commissione medica ex art. 4 della legge n. 210 del 1992, non può essere messo in discussione dal Ministero nel giudizio di risarcimento del danno, perché proveniente da un organo dello Stato e imputabile allo stesso Ministero.

Infine la Corte distrettuale aveva ritenuto provata la responsabilità dell’appellante principale, in quanto incombeva sul Ministero della Salute l’obbligo di vigilare e di attivarsi per evitare o ridurre il rischio di infezioni virali, insito nella pratica terapeutica della trasfusione di sangue.

Con ordinanza interlocutoria del 31 ottobre 2022 n. 32077 la Terza Sezione Civile della Cassazione rimetteva gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite al fine di risolvere il contrasto di giurisprudenza in ordine all’efficacia probatoria della valutazione espressa dalla Commissione medica ospedaliera di cui all’art. 4 della legge n. 210 del 1992.

Il Primo Presidente disponeva l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

I principi stabiliti dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, con sentenza del 6 luglio 2023, n. 19129 a seguito di un’articolata motivazione, hanno enunciato i seguenti principi:

a) nel giudizio risarcitorio promosso nei confronti del Ministero della Salute in relazione ai danni subiti per effetto della trasfusione di sangue infetto, il verbale redatto dalla Commissione medica di cui all’art. 4 della legge n. 210 del 1992 non ha valore confessorio e, al pari di ogni altro atto redatto da pubblico ufficiale, fa prova ex art. 2700 cod. civ. dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le diagnosi, le manifestazioni di scienza o di opinione costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice che, pertanto, può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può attribuire allo stesso il valore di prova legale;

b) nel medesimo giudizio, il provvedimento amministrativo di riconoscimento del diritto all’indennizzo ex lege n. 210 del 1992, pur non integrando una confessione stragiudiziale, costituisce un elemento grave e preciso da solo sufficiente a giustificare il ricorso alla prova presuntiva e a far ritenere provato, per tale via, il nesso causale, sicché il Ministero per contrastarne l’efficacia è tenuto ad allegare specifici elementi fattuali non potuti apprezzare in sede di liquidazione dell’indennizzo o sopravvenute acquisizioni della scienza medica, idonei a privare la prova presuntiva offerta dal danneggiato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza che la caratterizzano;

c) nel giudizio di risarcimento del danno il giudicato esterno formatosi fra le stesse parti sul diritto alla prestazione assistenziale ex lege n. 210 del 1992 fa stato quanto alla sussistenza del nesso causale fra emotrasfusione e insorgenza della patologia ed il giudice del merito è tenuto a rilevare anche d’ufficio la formazione del giudicato, a condizione che lo stesso risulti dagli atti di causa”.

Il Testo integrale della sentenza

Corte di cassazione, Sezioni unite civili, sentenza del 6 luglio 2023, n. 19129

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Roma, adita con appello principale dal Ministero della Salute e con impugnazione incidentale da , al quale erano poi succeduti in corso di causa gli eredi , , e , ha rigettato il gravame del Ministero e, in accoglimento dell’incidentale, ha riformato parzialmente, nel quantum, la sentenza definitiva del Tribunale di Roma n. 5260 dell’11

marzo 2013, condannando il Ministero a corrispondere agli eredi, pro quota ereditaria ed a titolo di risarcimento del danno, la complessiva somma di € 926.688,62, oltre agli interessi legali ed alla rivalutazione monetaria, conbdecorrenza dall’ottobre 2004.

La Corte distrettuale ha riassunto la vicenda processuale ed ha rilevato, in punto di fatto, che il defunto , a seguito di incidente stradale, era stato ricoverato d’urgenza dal 6 maggio al 7 giugno 1988 presso la *** ed era stato sottoposto ad intervento chirurgico, nel corso del quale si era resa necessaria la trasfusione di un’unità di sangue, attestata nella cartella clinica all’epoca redatta. Nel settembre del 2004, su consiglio del medico di fiducia, si era sottoposto ad accertamenti, che avevano evidenziato l’infezione da virus dell’HIV, confermata il 24 novembre 2004 all’atto delle dimissioni dall’*** e ***, ove era rimasto degente dal 29 settembre dello stesso anno. Il 16 marzo 2005 aveva presentato domanda amministrativa per il riconoscimento del proprio stato invalidante e, con verbale del 15 settembre 2005, la Commissione medica di prima istanza di Roma gli aveva riconosciuto l’invalidità totale e permanente, ex artt. 2 e 12 della legge n. 118/1971. In diritto e per quel che in questa sede rileva, il giudice d’appello, escluso l’eccepito difetto di legittimazione passiva del Ministero e dichiarato inammissibile l’appello incidentale proposto nei confronti della *** (la cui responsabilità era stata esclusa dalla sentenza parziale, non impugnata nei termini), ha ritenuto infondato il terzo motivo dell’appello principale, con il quale il Ministero aveva riproposto l’eccezione di prescrizione. La Corte distrettuale, richiamato il principio secondo cui la prescrizione decorre dal momento in cui la malattia viene percepita, o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, ha accertato che nella fattispecie la consapevolezza della derivazione causale della patologia dalla trasfusione risalente all’anno 1988 si era avuta solo nel 2004, a seguito degli approfondimenti e degli esami, richiesti dal medico curante, effettuati dalla struttura ospedaliera di Salerno. Infondato è stato ritenuto anche il motivo inerente al nesso causale, in relazione al quale il giudice d’appello ha richiamato il principio di diritto enunciato da Cass. 15 giugno 2018 n. 15734, secondo cui l’accertamento della riconducibilità del contagio all’emofrasfusione, compiuto dalla Commissione medica ex art. 4 della legge n. 210 del 1992, non può essere messo in discussione dal Ministero nel giudizio di risarcimento del danno, perché proveniente da un organo dello Stato ed imputabile allo stesso Ministero. Ha ritenuto detto principio applicabile alla fattispecie, perché non era in contestazione che il giudizio favorevole fosse stato espresso dalla competente Commissione. Infine la Corte distrettuale ha ritenuto provata la responsabilità dell’appellante principale, poiché all’epoca dei fatti incombeva sul Ministero della Salute l’obbligo di vigilare e di attivarsi per evitare o ridurre il rischio di infezioni virali, insito nella pratica terapeutica della trasfusione di sangue e nella somministrazione di emoderivati. Per la cassazione della sentenza il Ministero della Salute ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi, ai quali non hanno opposto difese la *** e la Liquidazione Coatta Amministrativa della ***, rimaste intimate. Con atto del 10 dicembre 2019 si sono costituiti in giudizio, quali eredi di , , e , i quali hanno eccepito l’inammissibilità del ricorso, perché notificato all’avvocato , all’epoca della notificazione destinataria di ordinanza cautelare ex art. 290 cod. proc. pen., con la quale era stato interdetto l’esercizio della professione forense per la durata di mesi sei. Successivamente, con atto del 5 febbraio 2022, si sono costituiti in giudizio nuovi difensori nell’interesse di , i quali hanno reiterato l’eccezione di inammissibilità e, nel merito, hanno concluso per l’infondatezza del ricorso. In pari data si è costituita , che ha anch’essa eccepito l’inammissibilità del ricorso. Con ordinanza interlocutoria del 31 ottobre 2022 n. 32077 la Terza Sezione Civile di questa Corte ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite al fine di risolvere il contrasto di giurisprudenza sull’efficacia probatoria, nel giudizio avente ad oggetto l’azione di risarcimento del danno, della valutazione espressa, quanto al nesso causale fra emotrasfusione e insorgenza della patologia, dalla Commissione medica ospedaliera di cui all’art. 4 della legge n. 210 del 1992.

Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

In prossimità dell’udienza pubblica del 6 giugno 2023 hanno depositato memoria il Ministero della Salute nonché l’avvocato , nell’interesse di e , che ha anche replicato, con successiva memoria, all’atto depositato dal Ministero.

L’Ufficio della Procura Generale ha depositato conclusioni scritte.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Preliminarmente occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità del ricorso, che i resistenti hanno sollevato con l’atto di costituzione in giudizio e ribadito nella memoria depositata ex art. 378 cod. proc. civ. nonchè nel corso dell’udienza pubblica.

L’eccezione, che fa leva sugli effetti prodotti dalla misura cautelare interdittiva applicata all’avvocato con ordinanza del 21 maggio 2019, poi annullata da questa Corte con sentenza n. 47176 dell’8 ottobre/20 novembre 2019, è infondata, ma per ragioni diverse da quelle indicate nell’ordinanza interlocutoria n. 32077 del 2022. In premessa va richiamato e ribadito l’orientamento secondo cui la cancellazione dall’albo, la radiazione e la sospensione, privano il difensore (temporaneamente o definitivamente) dello ius postulandi e, quindi, della legittimazione a compiere o a ricevere atti processuali, con la conseguenza che rendono, da un lato, non più idonea l’elezione di domicilio effettuata dalla parte presso quel difensore, dall’altro, applicabile l’art. 330, ultimo comma, cod. proc. civ., se l’atto da notificare è un’impugnazione e l’evento si è verificato dopo la pubblicazione della sentenza gravata (Cass. 21 settembre 2011 n. 19225; Cass. 21 maggio 2013 n. 12478; Cass. S.U. 13 febbraio 2017 n. 3702). In tal caso, infatti, non può operare la disciplina prevista dal combinato disposto degli artt. 301 e 299 cod. proc. civ., per l’ipotesi in cui l’evento colpisca, in pendenza di giudizio, il procuratore costituito, sicché l’attività processuale non è in assoluto impedita e può essere compiuta, ma nel rispetto, quanto alla decorrenza del termine, dell’art. 328 cod. proc. civ., applicabile anche al difensore a seguito della sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 41 del 3 marzo 1986, e, quanto al luogo nel quale la notifica deve essere effettuata, del già richiamato art. 330 cod. proc. civ.. Peraltro, la notificazione erroneamente effettuata alla parte presso il procuratore costituito nel giudizio di appello, divenuto privo di ius postulandi dopo la definizione del giudizio medesimo, non può essere ritenuta inesistente, come infondatamente assumono gli eredi di .

L’inesistenza, infatti, sulla base dei principi di diritto già enunciati da queste Sezioni Unite (cfr. Cass. S.U. 20 luglio 2016 n. 14916 e Cass. S.U. 13 febbraio 2017 n. 3702, quest’ultima in tema di notificazione dell’appello effettuata presso il procuratore domiciliatario volontariamente cancellatosi dall’albo professionale) e qui ribaditi, resta circoscritta ai casi in cui si sia in presenza di una notificazione meramente tentata (e quindi, nella sostanza, omessa) o di un atto che sia privo degli essenziali elementi costitutivi idonei a rendere lo stesso qualificabile come notificazione. Detti elementi costitutivi vanno ravvisati: a) nell’attività di trasmissione svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere l’attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall'ordinamento, in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, ex lege, eseguita.

Il luogo della notificazione non integra un elemento costitutivo essenziale dell'atto, con la conseguenza che, anche qualora esso si riveli privo di collegamento con il destinatario, si ricade nell’ambito della nullità dell'atto, sanabile, con efficacia ex tunc, o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata, anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità (cfr. in tali termini la citata Cass. S.U. n. 14916/2016, punto 2.6), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ai sensi dell'art. 291 cod. proc. civ.. Dai richiamati principi discende che nella fattispecie, da un lato, deve essere esclusa l’eccepita inesistenza dell’atto; dall’altro, a seguito della costituzione in giudizio della parte nei cui confronti l’invalidità si è verificata, si deve ritenere sanata, con efficacia retroattiva, la nullità della notificazione, sanatoria che non è impedita dalle forme utilizzate per la costituzione, effettuata attraverso il deposito di memoria e non con controricorso.

Occorre rilevare al riguardo che tutti i resistenti, nel costituirsi in giudizio, oltre ad eccepire l’inammissibilità del ricorso, hanno anche concluso nel merito per il rigetto dello stesso (cfr. le conclusioni degli atti del 10.12.2019, nell’interesse di ; del 5.12.2022 nell’interesse di ; del 5.12.2022 nell’interesse di ) ed inoltre, nel corso delladiscussione orale, il difensore di e ha richiamato gli argomenti illustrati nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ. e, pur reiterando anche l’eccezione di inammissibilità, come si è detto infondata, non ha neppure accennato alla perdita di poteri processuali non potuti esercitare in conseguenza della nullità della notificazione.

In tale contesto, dunque, esclusa l’eccepita inesistenza della notificazione, va parimenti esclusa la necessità della rinnovazione ex art. 291 cod. proc. civ. che, in ragione dell’avvenuta costituzione in giudizio e delle difese successivamente illustrate, si risolverebbe in un inutile dispendio di attività processuale.

Con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art.360 n. 3 cod. proc. civ., è denunciata la violazione degli artt. 2043, 2735, 2733, 2700 cod. civ., dell’art. 116 cod. proc. civ. nonché dell’art. 4 della legge n. 210 del 1992 ed il Ministero censura il capo della sentenza impugnata che ha ritenuto provato il nesso causale fra somministrazione della trasfusione e insorgenza della patologia, valorizzando il solo giudizio espresso dalla Commissione medica ospedaliera, nell’ambito del procedimento disciplinato dalla citata legge n. 210 del 1992. Richiama il principio di diritto enunciato da queste Sezioni Unite con sentenza 11 gennaio 2008 n. 577 e deduce che il verbale redatto dalla Commissione, al di fuori del procedimento amministrativo nel quale si inserisce, ha il medesimo valore di ogni altro atto redatto da pubblico ufficiale e, pertanto, fa piena prova, ex art. 2700 cod. civ., dei fatti che la Commissione attesta essere avvenuti in sua presenza o dalla stessa compiuti, mentre non costituisce una prova legale quanto alle valutazioni, alle diagnosi, alle manifestazioni di scienza o di opinione, espresse dall’organo tecnico, che il giudice può apprezzare, senza, però, attribuire alle stesse il valore di vero e proprio accertamento. Sottolinea, poi, la diversità fra il diritto al risarcimento del danno ed il diritto all’indennizzo ex lege n. 210 del 1992 e deduce che in ambito assistenziale e previdenziale le deliberazioni collegiali mediche, quale che sia la loro natura, sono prive di efficacia vincolante, sostanziale e processuale, in quanto meramente strumentali e preordinate all’adozione del provvedimento di attribuzione o negazione della prestazione richiesta.

La seconda critica, ricondotta al vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., addebita alla Corte distrettuale di avere omesso l’esame della consulenza tecnica d’ufficio che, all’esito degli accertamenti medico-legali, aveva escluso l’asserito nesso causale fra l’emotrasfusione e la malattia contratta.

Con il terzo motivo è eccepita, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. ed il Ministero torna a dolersi dell’omesso esame della consulenza tecnica d’ufficio.

Infine la quarta censura, formulata ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., denuncia la violazione ed errata applicazione dell’art. 2947 cod. civ.. Il Ministero addebita, in sintesi, alla Corte distrettuale di avere valorizzato la sola consapevolezza soggettiva della derivazione causale del contagio dall’emotrasfusione, svalutando del tutto l’ulteriore parametro della conoscibilità, che deve essere accertata tenendo conto dell’ordinaria diligenza esigibile dall’uomo medio e del livello di conoscenze raggiunto dalla scienza medica nel periodo in cui la patologia si è manifestata.

Il primo motivo di ricorso è fondato.

La censura investe la questione sottoposta dalla Terza Sezione alle Sezioni Unite, inerente al valore di prova o di mero indizio da assegnare, nel giudizio civile di risarcimento del danno, al verbale della Commissione medica di cui all’art. 4 della legge 25 febbraio 1992 n. 210, che abbia riconosciuto la sussistenza del nesso causale fra l’emotrasfusione e la malattia insorta ai fini della liquidazione delle prestazioni assistenziali disciplinate dalla legge richiamata.

L’ordinanza interlocutoria prende le mosse dal principio di diritto enunciato da Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 577, secondo cui il verbale redatto ai sensi della disposizione sopra richiamata, al di fuori del procedimento amministrativo per la concessione dell’indennizzo, costituisce prova legale ex art. 2700 cod. civ. solo limitatamente ai fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza o dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione espresse forniscono unicamente materiale indiziario, soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può attribuire alle stesse il valore di vero e proprio accertamento.

Rileva che detto orientamento, seguito senza oscillazioni nel successivo decennio, è stato ritenuto da Cass. 15 giugno 2018 n. 15734 inapplicabile nel caso in cui l’azione risarcitoria venga proposta nei confronti del Ministero della Salute, perché in detta fattispecie, nella quale le parti del giudizio coincidono con quelle del procedimento amministrativo, l’accertamento è imputabile allo stesso Ministero, che lo ha espresso per il tramite di un suo organo, e, pertanto, nel giudizio di risarcimento del danno il giudice deve ritenere «fatto indiscutibile e non bisognoso di prova» la riconducibilità del contagio alla trasfusione.

Il Collegio rimettente richiama, poi, Cass. 5 settembre 2019 n. 22183 e Cass. 30 giugno 2020 n. 13008, che al principio hanno prestato integrale adesione, nonché Cass. 5 ottobre 2018 n. 24523 e Cass. 17 novembre 2021 34885, che hanno ribadito il valore di prova legale dell’accertamento amministrativo ma, in un caso, valorizzando non il verbale della commissione, bensì il provvedimento di riconoscimento dell’indennizzo, nell’altro richiamando congiuntamente Cass. n. 15734/2018 e Cass. S.U. n. 577/2008 (citate) per trarne la conseguenza che il giudice del merito «se avesse voluto disattendere il giudizio positivo già dato dalla commissione ai fini della spettanza dell’indennizzo avrebbe dovuto indicare le ragioni dell’esclusione…».

Sottolinea l’ordinanza interlocutoria che l’orientamento inaugurato dalla citata Cass. n. 15734/2018 si incentra sulla natura di organo del Ministero della Salute, da riconoscere alle Commissioni mediche che intervengono nel procedimento disciplinato dalla legge n. 210 del 1992, e contrasta con il principio, di carattere più generale, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza giuslavoristica e da queste Sezioni Unite, secondo cui il giudizio espresso nella materia della previdenza ed assistenza obbligatoria dai collegi medici è espressione di discrezionalità tecnica, non amministrativa, ed è privo di efficacia vincolante, sostanziale e procedimentale, in quanto l’accertamento sanitario è solo strumentale e preordinato «all’adozione del provvedimento di attribuzione della prestazione in corrispondenza delle funzioni di certazione assegnate alle indicate commissioni».

Ritengono le Sezioni Unite, a definizione del denunciato contrasto, che debba essere disatteso l’orientamento espresso dalle pronunce citate nel punto che precede (orientamento seguito più di recente da Cass. 4 marzo 2021 n. 5878 e Cass. 23 febbraio 2021 n. 4795) e che vada ribadito il principio di diritto già enunciato da Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 577, applicabile sia alle controversie promosse nei confronti delle sole strutture sanitarie sia ai giudizi nei quali venga convenuto anche il Ministero.

In premessa occorre sottolineare l’ontologica diversità fra il diritto soggettivo alla prestazione assistenziale disciplinata dalla legge n. 210 del 1992 ed il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ., diversità che queste Sezioni Unite hanno già evidenziato, anche attraverso il richiamo alla giurisprudenza costituzionale, in più pronunce alla cui motivazione si rinvia ex artt. 118 disp. att. cod. proc. civ. (cfr. Cass. S.U. 1° aprile 2010 8064 e 8065; Cass. S.U. 9 giugno 2011 n. 12538). Si è detto, in particolare, che il rimedio risarcitorio presuppone un fatto illecito e può trovare applicazione solo qualora il trattamento sanitario sia stato in concreto attuato senza adottare le cautele o omettendo i controlli ritenuti necessari sulla base delle conoscenze scientifiche. L’indennizzo, invece, nei casi di lesione irreversibile derivata da emotrasfusioni o dalla somministrazione di emoderivati (diversa è la ratio dell’istituto nell’ipotesi di vaccinazione obbligatoria), trova il suo fondamento nel dovere di solidarietà sociale prescritto dall’art. 2 Cost. e, «in un’ottica più avanzata di socializzazione del danno incolpevole», valorizza i principi desumibili dall’art. 38 Cost., quanto alla protezione sociale della malattia e dell’inabilità al lavoro, chiamando la collettività a partecipare, nei limiti delle risorse disponibili, al ristoro del danno alla salute che, altrimenti, in quanto incolpevole, rimarrebbe esclusivamente a carico del danneggiato.

La normativa dettata per la prestazione assistenziale è stata oggetto, nel tempo, di plurimi interventi modificativi ed additivi, che hanno inciso principalmente sulle tutele assicurate e sulla platea dei beneficiari (cfr. in motivazione le citate pronunce di queste Sezioni Unite e Corte Cost. 6 marzo 2023 n.35) mentre sostanzialmente invariata è rimasta la disciplina del procedimento che rileva in questa sede, dettata dall’art. 4 della legge n. 210 del 1992, secondo cui « Il giudizio sanitario sul nesso causale tra la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio e la menomazione dell'integrità psico-fisica o la morte è espresso dalla commissione medicoospedaliera di cui all'art. 165 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092» (comma 1) che «esprime il proprio parere sul nesso causale tra le infermità o le lesioni e la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio» (comma 3). Con l'art.1, comma 12, della legge 25 luglio 1997, n. 238, il legislatore ha, poi, previsto che le commissioni «sono integrate con medici esperti nelle materie attinenti alle richieste di indennizzo, ai sensi dell'ultimo comma dell'articolo 165 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092.»

9.1. L’art. 165 del citato d.P.R., di approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato, nel testo vigente all’epoca del rinvio operato dalla legge n. 210 del 1992, stabiliva che «il giudizio sanitario sulle cause e sull'entità delle menomazioni dell'integrità fisica del dipendente ovvero sulle cause della sua morte è espresso dalle commissioni mediche ospedaliere istituite: a) presso gli ospedali militari principali o secondari dei comandi militari territoriali di regione; b) presso gli ospedali militari marittimi e le infermerie autonome militari marittime; c) presso gli istituti medico legali dell'Aeronautica militare.» (comma 1).

La disposizione è stata successivamente abrogata dall’art. 2268, comma 1 n. 691, del d.lgs. 15 marzo 2010 n. 66, di approvazione del codice dell’ordinamento militare, che ha disciplinato l’organizzazione del Servizio Sanitario Militare (artt. 181 e seguenti), al quale appartengono le Commissione mediche ospedaliere interforze di prima istanza, costituite presso i Dipartimenti militari di medicina legale, ed alle quali è attribuita, fra l’altro, la competenza ad effettuare gli accertamenti medico-legali di cui alla legge n. 210 del 1992 (art. 193, comma 1).

9.2. Dalla normativa citata si trae, quindi, una prima conclusione: le Commissioni mediche competenti ad accertare la patologia denunciata, a verificarne la riconducibilità all’emotrasfusione o alla vaccinazione, a classificare gli esiti invalidanti sulla base della tabella A annessa al testo unico approvato con d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915, come sostituita dalla tabella A allegata al d.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834 ( art. 4, comma 4), sono estranee all’organizzazione del Ministero della Salute (cfr. anche il d.P.R. 28 marzo 2013 n. 44 di riordino degli organi collegiali di detto Ministero) e costituiscono articolazioni del Ministero della Difesa, alle quali è affidata, per effetto di specifiche disposizioni di legge, la competenza ad esprimere valutazioni tecniche, che integrano atti endoprocedimentali strumentali all’adozione di provvedimenti riservati a Ministeri diversi da quello di appartenenza (cfr. anche il procedimento disciplinato dal già richiamato d.P.R. n. 1092/1973, antecedentemente all’abrogazione disposta dal d.P.R. 29 ottobre 2001 n. 461).

Dall’art. 5 della legge n. 210 del 1992, che attribuisce al Ministero della Salute la competenza a decidere il ricorso avverso la decisione della Commissione medica, non si possono trarre le conseguenze indicate nella motivazione di Cass. n. 15734/2018, perché si è in presenza di un ricorso gerarchico improprio, ravvisabile ogniqualvolta un’espressa disposizione di legge attribuisce il potere di decisione ad una determinata autorità, pur in assenza di rapporto gerarchico con quella che ha emanato l’atto, che dalla prima non dipende (cfr. anche Cons. Stato II parere n. 2383/2014).

La Commissione medica, quindi, nell’effettuare l’accertamento alla stessa demandato dall’art. 4 della legge n. 210 del 1992, non agisce quale organo del Ministero della Salute e la valutazione espressa impegna quest’ultimo, anche in sede amministrativa, nei soli limiti della disciplina dettata per il procedimento nel quale l’atto si inserisce.

Nel giudizio avente ad oggetto la prestazione assistenziale, che si può instaurare fra le parti pur in presenza dell’avvenuto accertamento del nesso causale (tipico il caso in cui il diniego della prestazione sia dipeso, non dalla negazione del nesso causale, bensì dall’applicazione del termine di decadenza previsto dall’art. 3 della legge n. 210 del 1992), opera il principio, sancito dall’art. 147 disp. att. cod. proc. civ., secondo cui «sono privi di qualsiasi efficacia vincolante, sostanziale e processuale,…..le collegiali mediche, quale ne sia la loro natura», sicché in quella sede, nella quale non è precluso all’amministrazione contestare anche la sussistenza del nesso causale, seppure affermato dalla commissione medica, il giudice è tenuto ad accertare tutti gli elementi costitutivi della prestazione della quale si discute (cfr. Cass. 6 aprile 2021 n. 9235, Cass. 30 marzo 2006 n. 7548, Cass. 22 maggio 2006 n. 11908 in tema di invalidità civile e Cass. 27 novembre 2017 n. 28262 pronunciata in fattispecie nella quale veniva in rilievo l’indennizzo emotrasfusionale).

L’orientamento da ultimo richiamato, espresso da tempo dalla giurisprudenza giuslavoristica (cfr. fra le più risalenti Cass. 27 maggio 1983 3666 e Cass. 14 gennaio 1997 n. 317), ha trovato poi avallo nelle pronunce di queste Sezioni Unite che, sia pure in sede di regolamento di giurisdizione e con riferimento alle attività accertative poste in essere da Commissioni mediche diverse da quella che qui viene in rilievo, hanno ripetutamente affermato il principio, di valenza generale, secondo cui il giudizio formulato dalle commissioni mediche all’esito degli accertamenti disposti è espressione di discrezionalità tecnica, non amministrativa, e, pertanto, va esclusa la natura provvedimentale dell’atto adottato, che è meramente strumentale e si inserisce nel procedimento in ragione della funzione di «certazione» attribuita dal legislatore alle commissioni medesime ( Cass. S.U. 23 ottobre 2014 n. 22550; Cass. S.U. 22 novembre 2006 n. 24862; Cass. S.U. 11 dicembre 2003 n. 18960 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione).

Il principio di diritto enunciato dalla citata Cass. S.U. n. 577 del 2008, quanto al valore probatorio del verbale di accertamento, è dunque coerente con il quadro generale sopra descritto nei suoi tratti essenziali, con il quale, invece, non si armonizza il diverso orientamento espresso a partire da Cass. n. 15734/2018, che oltre a qualificare erroneamente la Commissione organo del Ministero della Salute e ad attribuirle la capacità di rappresentare l’amministrazione statale, che la stessa non possiede, finisce per riconoscere al verbale, nel giudizio di risarcimento del danno, il valore di prova legale, che va, invece, escluso, per espressa indicazione normativa, persino nel giudizio nel quale si discute della prestazione assistenziale, in relazione alla quale il procedimento amministrativo viene avviato e svolto.

L’affermazione, che si legge nella citata Cass. n. 15734/2018, secondo cui «l’accertamento della riconducibilità del contagio ad un’emotrasfusione compiuto dalla Commissione….non può essere messo in discussione dal Ministero…ed il giudice deve ritenere detto fatto indiscutibile e non bisognoso di prova…» nella sostanza, come evidenzia l’ordinanza interlocutoria, finisce per ravvisare una confessione nell’accertamento del nesso causale contenuto nel parere tecnico.

Il principio non può essere condiviso, oltre che per quanto si è illustrato nei punti che precedono, per l’assorbente ragione che il nesso causale non è un fatto obiettivo, ma una relazione che lega un’azione o un’omissione ad una data conseguenza, che non si sarebbe verificata ove la condotta non fosse stata tenuta o l’azione doverosa non fosse stata omessa.

Non è questa la sede per soffermarsi sui principi che regolano, in ambito civile e penale, il procedimento logico-giuridico che sta alla base della ricostruzione del nesso causale né per analizzare le argomentazioni sulla base delle quali queste Sezioni Unite sono giunte ad affermare che «nell’accertamento del nesso causale con riferimento a danni alla persona, pur dovendosi distinguere la cosiddetta causalità generale (l’idoneità, la capacità in generale di una sostanza a provocare malattie, il rischio che incombe sulle popolazioni indagate, cioè su gruppi e non su singoli individui) dalla cosiddetta causalità individuale o del singolo caso (relativa alla probabilità ragionevole della concretizzazione nel singolo caso della legge causale generale) va rilevato che questa causalità specifica, in presenza di una causalità generale ed in assenza di fattori alternativi, può essere fondata anche sulla base della prova presuntiva che presenti i requisiti della gravità, precisione e concordanza. Ai fini della ricostruzione del nesso causale in materia di responsabilità civile, diversamente da quella penale dove vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti» ( Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 584).

I richiamati principi, dai quali le Sezioni Unite non hanno motivo di discostarsi, rendono evidente che all’affermazione o alla negazione del nesso causale si può giungere solo all’esito di un complesso procedimento valutativo nel quale rilevano, oltre allo stato delle conoscenze scientifiche da apprezzare ai fini della cosiddetta causalità generale, gli elementi individualizzanti necessari per far ritenere concretizzata nel singolo caso all’esame del giudice la legge causale generale.

Non si è, dunque, in presenza di un «fatto obiettivo» e, pertanto, opera il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la confessione non può avere ad oggetto giudizi, opinioni o assunzioni di responsabilità, e riguarda solo «fatti», la cui qualificazione giuridica è comunque riservata al giudice (Cass. S.U. 25 marzo 2013 n. 7381, Cass. S.U. 5 maggio 2006 n. 10311, Cass. 18 ottobre 2011 n. 21509).

E’ da escludere, pertanto, che possa essere oggetto di confessione l’affermazione del nesso causale fra l’emotrasfusione ed il contagio, sia nell’ipotesi in cui detto accertamento sia contenuto nel solo verbale della Commissione medica (come accade nei casi di rigetto della domanda amministrativa per ragioni diverse dall’insussistenza della necessaria causalità), sia qualora il procedimento si concluda con il riconoscimento dell’indennizzo in favore del richiedente, atteso che anche quel provvedimento è espressione di discrezionalità tecnica e presuppone, non una dichiarazione di scienza, bensì una valutazione sulla sussistenza dei requisiti richiesti ai fini dell’accesso alla prestazione assistenziale.

Ciò, peraltro, non significa che nel giudizio promosso nei confronti del Ministero della Salute per il risarcimento del danno derivato dall’emotrasfusione l’accertamento effettuato in sede amministrativa del nesso causale fra quest’ultima e l’insorgenza della patologia non possa essere utilizzato ai fini della prova del nesso medesimo, che deve essere offerta dalla parte che agisce in giudizio.

Il diritto all’indennizzo ex lege n. 210 del 1992 e quello al risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ., che l’ordinamento riconosce come concorrenti, presuppongono entrambi un medesimo fatto lesivo, ossia l’insorgenza della patologia, derivato dalla medesima attività (cfr. in motivazione Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 584), e l’azione di danno si differenzia da quella finalizzata al riconoscimento della prestazione assistenziale essenzialmente perché richiede anche che l’attività trasfusionale o la produzione di emoderivati siano state compiute senza l’adozione di tutte le cautele ed i controlli esigibili a tutela della salute pubblica.

Si è in presenza, quindi, di diritti e di azioni che presentano elementi costitutivi comuni ed è proprio da questa comunanza dei presupposti e del relativo accertamento che scaturiscono le questioni qui dibattute, le quali non si esauriscono in quella inerente al valore probatorio del verbale redatto dalla Commissione Medica Ospedaliera, giacchè le parti e la Procura Generale nei propri scritti difensivi hanno discusso anche dell’incidenza nel giudizio civile di risarcimento del danno dell’avvenuto riconoscimento in via amministrativa della prestazione assistenziale nonchè dell’efficacia, in quest’ultimo giudizio, del giudicato formatosi fra le stesse parti sul diritto alla liquidazione dell’indennizzo ex lege n. 210 del 1992.

In ragione del dibattito processuale sviluppatosi successivamente all’ordinanza di rimessione (è nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ. e nelle conclusioni scritte del Pubblico Ministero che gli ulteriori temi sono stati prospettati – cfr. sul valore del provvedimento amministrativo pag. 6 e 7 delle conclusioni del P.G. e sul giudicato esterno la memoria depositata da

e ) nonchè del ruolo nomofilattico che l’ordinamento assegna alla Corte di Cassazione, nella sua massima espressione, ritengono le Sezioni Unite di dovere pronunciare anche su dette ulteriori questioni, seppure non ricomprese nell’ambito di devoluzione circoscritto dall’ordinanza interlocutoria.

Si è già anticipato che, quanto al primo aspetto controverso, il denunciato contrasto, sulla base delle considerazioni tutte svolte nei punti da 9 a 14, deve essere risolto dando continuità al principio di diritto enunciato da Cass. S.U. n. 577 del 2008, secondo cui, al di fuori del procedimento amministrativo per la concessione dell’indennizzo ex lege n. 210 del 1992, i verbali delle commissioni mediche, al pari di ogni altro atto redatto da pubblico ufficiale, fanno prova ex art. 2700 cod. civ. dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le diagnosi, le manifestazioni di scienza o di opinione costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice che, pertanto, può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di prova legale, né ritenere che la valutazione espressa dalla Commissione medica circa la sussistenza del nesso causale fra emotrasfusione e malattia, escluda il nesso medesimo dal thema probandum del giudizio risarcitorio intentato nei confronti del Ministero.

Una diversa valenza va, invece, riconosciuta al provvedimento che, sulla base dell’istruttoria svolta e del parere tecnico acquisito, disponga la liquidazione dell’indennizzo in favore del richiedente, sul presupposto dell’avvenuto accertamento in sede amministrativa dei requisiti tutti che integrano gli elementi costitutivi del diritto alla prestazione assistenziale.

Fra detti elementi costitutivi rientra, appunto, il nesso causale che lega emotrasfusione e patologia indennizzata, sicché l’atto con il quale l’amministrazione si riconosce debitrice della provvidenza assistenziale, presuppone la valutazione positiva della derivazione eziologica, valutazione che se da un lato, in quanto tale, non può integrare una confessione, dall’altro costituisce un elemento grave e preciso da solo sufficiente a giustificare il ricorso alla prova presuntiva e a far ritenere provato, per tale via, il nesso causale.

Queste Sezioni Unite, ribadito il principio secondo cui la prova presuntiva non è un mezzo relegato dall’ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove ed allo stesso il giudice può fare ricorso anche in via esclusiva, nell’affrontare lo specifico tema della prova del nesso causale nel giudizio di risarcimento intentato nei confronti della pubblica amministrazione in relazione a danni derivati dalla pratica dell’emotrasfusione, hanno evidenziato che «dinanzi alla prova del nesso causale il danneggiato non è lasciato solo ma a quest’ultimo si affianca il soggetto evocato in giudizio nella veste di responsabile, ove egli sia tenuto per norma giuridica o tecnica a documentare la sua condotta o determinati fatti, registrandosi cioè una situazione in cui entrambe le parti non possono rimanere inerti dinanzi al problema della causalità» ( Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 582, punto 6.3).

Se, dunque, ai fini del ragionamento presuntivo il giudice può e deve valorizzare la mancata predisposizione o la mancata produzione da parte del convenuto della documentazione imposta per legge, a maggior ragione assumono rilievo le condotte positive tenute dall’amministrazione convenuta nel procedimento amministrativo di liquidazione dell’indennizzo, con la conseguenza che l’attore può fare leva nel giudizio di danno, per assolvere all’onere della prova sullo stesso gravante, sull’accertamento del nesso causale compiuto in tale sede, che investe sia la causalità generale che quella del caso concreto, e che presuppone, come si desume dalle regole fissate per il procedimento dagli artt. 3 e 4 della legge n. 210 del 1992, un giudizio espresso da organi tecnici qualificati, sulla base di puntuali dati fattuali, allegati e documentati dal richiedente.

Quell’accertamento, dunque, è sufficiente a far ritenere integrata una valida prova presuntiva ex art. 2729 cod. civ. e, pertanto, l’amministrazione, nel giudizio di danno, non si può limitare alla generica contestazione del nesso causale ed all’altrettanto generica invocazione della regola di riparto dell’onere probatorio fissata dall’art. 2697 cod. civ., poichè la presunzione «forte» che dal riconoscimento amministrativo discende, seppure semplice e non legale, richiede, per essere superata, che vengano allegati specifici elementi fattuali non potuti apprezzare in sede di liquidazione dell’indennizzo o sopravvenute acquisizioni della scienza medica, idonei a privare la prova presuntiva offerta dei requisiti di gravità, precisione e concordanza che la caratterizzano.

Come già queste Sezioni Unite hanno osservato (cfr. Cass. S.U. n. 582/2008 cit.), per tale via non si realizza nessuna inversione dell’onere della prova, che resta a carico del danneggiato, perché la regola di giudizio qui enunciata attiene alla idoneità dell’elemento presuntivo a consentire inferenze che ne discendano secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, idoneità che va ritenuta, salva l’allegazione di contrari elementi specifici e concreti che rendano il primo inattendibile, sì da impedire che sullo stesso possa essere fondato il giudizio di inferenza probabilistica.

Resta, infine, da affontare la questione inerente all’efficacia nel giudizio civile di risarcimento del danno del giudicato formatosi fra le stesse parti sul diritto all’indennizzo ex lege n. 210 del 1992, diritto che, si è già detto, presuppone l’accertamento della derivazione eziologica della patologia indennizzata dall’emotrasfusione effettuata. Da tempo queste Sezioni Unite hanno enunciato il principio, che deve essere qui ribadito, secondo cui « qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo» ( Cass. S.U. 17 dicembre 2007 n. 26482 e negli stessi termini Cass. S.U. 1° giugno 2006 n. 13916).

Di detto orientamento, espresso da questa Corte anche prima dei richiamati arresti delle Sezioni Unite, è già stata fatta applicazione (cfr. Cass. 5 ottobre 2018 n. 24523, Cass. 29 gennaio 2019 n. 2359, Cass. 13 maggio 2022 n. 15379) in relazione al rapporto fra il giudicato formatosi sull’azione proposta ex lege n. 210 del 1992 ed il successivo giudizio di risarcimento del danno, a condizione che quest’ultimo sia stato instaurato nei confronti del Ministero, legittimato passivo nella controversia assistenziale (cfr. Cass. S.U. 9 giugno 2011 n. 12538), e non della sola struttura sanitaria.

Le conclusioni alle quali la Sezione Terza è pervenuta vanno qui ribadite, giacché sull’unico rapporto giuridico che si instaura fra le parti all’atto della pratica dell’emotrasfusione, si innestano azioni distinte regolate dall’ordinamento che, pur nella loro autonomia, presentano una parziale comunanza di requisiti richiesti ai fini dell’insorgenza del diritto, con la conseguenza che l’accertamento definitivo di detti requisiti produce effetti anche nel giudizio nel quale quel medesimo elemento costitutivo è stato fatto valere per ottenere un bene diverso da quello già domandato.

L’affermazione del nesso causale fra emotrasfusione e insorgenza della patologia, contenuta nella sentenza che riconosce l’indennizzo ex lege n. 210 del 1992, è, dunque, suscettibile di passaggio in giudicato e, rispetto al successivo giudizio di risarcimento del danno instauratosi fra le stesse parti, integra un giudicato esterno, come tale vincolante per il giudice.

Sul piano processuale i principi che regolano la rilevabilità del giudicato nel giudizio di merito e di legittimità vanno ricavati dalle pronunce di queste Sezioni Unite più volte intervenute sul tema, sicché in questa sede ci si limiterà al richiamo degli stessi, rinviando, quanto alle ragioni dei principi affermati, alla motivazione delle sentenze citate.

E’ ormai ius receptum l’orientamento, inaugurato da Cass. S.U. 26 maggio 2001 n. 226, secondo cui «poiché nel nostro ordinamento vige il principio della normale rilevabilità di ufficio delle eccezioni, derivando la necessità dell'istanza di parte solo da una specifica previsione normativa, l'eccezione di giudicato esterno, in difetto di una tale previsione, è rilevabile d'ufficio ed il giudice è tenuto a pronunciare sulla stessa, qualora il giudicato risulti da atti comunque prodotti nel corso del giudizio di merito, con la conseguenza che, in mancanza di pronuncia o nell'ipotesi in cui il giudice del merito abbia affermato la tardività dell'allegazione – e la relativa pronuncia sia stata impugnata – il giudice di legittimità accerta l'esistenza e la portata del giudicato con cognizione piena, che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall'interpretazione data al riguardo dal giudice del merito».

E’ stato, poi, precisato da Cass. S.U. 1° giugno 2006 n. 13916 che in sede di legittimità il giudicato esterno, al pari di quello interno, è rilevabile d’ufficio non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell'ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata. In tal caso la produzione del giudicato, da effettuare unitamente al ricorso se formatosi in pendenza del termine per l'impugnazione, ovvero, nel caso di formazione successiva, fino all'udienza di discussione, non trova ostacolo nel divieto posto dall'art. 372 cod. proc. civ., che si riferisce esclusivamente ai documenti che avrebbero potuto essere prodotti nel giudizio di merito, e non a quelli dei quali non era possibile la produzione in quella sede.

Ha, poi, aggiunto Cass. S.U. 17 dicembre 2007 n. 26482 che il principio secondo cui la rilevabilità d’ufficio del giudicato esterno trova un limite nel divieto di far uso della propria scienza privata, posto sia al giudice del merito che a quello di legittimità, non opera qualora il giudicato stesso si sia formato a seguito di una pronuncia della Corte di cassazione, già nota alle parti, la cui materiale acquisizione al giudizio di legittimità in corso non risponde ad alcuna reale esigenza nè delle parti stesse nè della Corte la quale, in ragione della funzione nomofilattica attribuitale, è istituzionalmente tenuta a conoscere i propri precedenti. Infine Cass. S.U. 20 ottobre 2010 n. 21493, nel richiamare i precedenti arresti delle Sezioni Unite, ha aggiunto che qualora il giudicato esterno si sia formato nel corso del giudizio di secondo grado, o antecedentemente allo stesso, e l’esistenza di tale giudicato non sia stata eccepita in giudizio dalla parte che ne abbia interesse, la sentenza d’appello che abbia pronunciato in difformità da tale giudicato è impugnabile con il ricorso per revocazione ex art. 395 n. 5 cod. proc. civ., e non con il ricorso per cassazione.

19.1. E’ sulla base dei richiamati principi che va valutata l’eccezione di giudicato esterno, formulata dalla difesa di e nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ. ed illustrata in sede di discussione orale. Va subito detto che la produzione documentale effettuata in questa sede non può essere apprezzata dalla Corte, perché si fa valere un giudicato esterno, formatosi sulla sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 6343 del 14 settembre 2010, e, quindi, antecedentemente all’instaurazione del giudizio di risarcimento del danno, sicché non possono operare i principi enunciati dalle citate Cass. S.U. n. 13916/2006 e n. 26482/2007. Occorre, poi, evidenziare che il giudicato sul nesso causale è eccepito dalla parte integralmente vittoriosa nel precedente grado di giudizio, al fine di paralizzare il ricorso avversario, formulato avverso il capo della decisione che il nesso causale ha ritenuto sulla base di un diverso percorso argomentativo, e, pertanto, quella parte non avrebbe potuto proporre ricorso per revocazione ex art. 395, comma 5, cod. proc. civ. nè era tenuta a notificare ricorso incidentale condizionato, perché nessuna pronuncia è stata resa dal giudice d’appello sull’incidenza del precedente giudicato formatosi fra le stesse parti, con la conseguenza che quella questione si deve ritenere ancora sub iudice. In tale contesto processuale, quindi, questa Corte, in applicazione del principio enunciato da Cass. S.U. n. 226/2001, avrebbe potuto conoscere con cognizione piena del precedente giudicato, ma a condizione che lo stesso risultasse, anche se non eccepito, ritualmente prodotto nel giudizio di primo grado o di appello.

Senonchè la peculiarità della fattispecie, nella quale, da un lato, la pronuncia gravata non fa cenno alla precedente iniziativa giudiziaria, dall’altro si assume anche che il fascicolo di parte sarebbe andato smarrito nel corso del giudizio e che detto smarrimento avrebbe reso necessaria la ricostruzione dello stesso, induce la Corte a rimettere al giudice del rinvio, al quale la causa deve essere rinviata in ragione della fondatezza del primo motivo di ricorso, anche l’accertamento sulla ritualità della produzione del giudicato nel giudizio di merito, preliminare rispetto alla valutazione sulla fondatezza dell’eccezione.

Il quarto motivo di ricorso è inammissibile.

La Corte territoriale ha richiamato in premessa l’orientamento, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947 cod. civ., non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno o da quando la malattia si manifesta all’esterno, bensì dal momento in cui viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento, doloso o colposo, altrui, usando l’ordinaria diligenza e tenuto conto delle conoscenze scientifiche (Cass. S.U. 11 gennaio 2008 nn. 576, 579, 580, 581,583 e 584; cfr. fra le tante più recenti Cass. 18 giugno 2019 n. 16217 e Cass. n. 26 maggio 2021 n. 14470). Ha, poi, aggiunto, richiamando Cass. 15991 del 18 giugno 2018, che l’eccezione di prescrizione deve fondarsi sui fatti allegati dalla parte, quand’anche suscettibili di diversa qualificazione da parte del giudice, sicché, nella specie, sarebbe stato onere del Ministero specificare le circostanze dalle quali si poteva desumere che l’attore aveva avuto, o avrebbe potuto avere, conoscenza, non solo della malattia, ma anche della sua derivazione causale dalla trasfusione in epoca antecedente al ricovero del 2004. Il convenuto, invece, si era limitato ad individuare il dies a quo nell’anno di effettuazione della trasfusione e ad invocare un generico dovere di diligenza esigibile dal danneggiato.

Il motivo, che prospetta la necessità di tener conto non solo della conoscenza soggettiva ma anche della conoscibilità, da accertare oggettivamente sulla base delle acquisizioni raggiunte dalla scienza medica, per un verso non coglie l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata, per l’altro finisce per censurare l’accertamento di fatto compiuto dalla Corte territoriale la quale, in assenza di specifiche allegazioni in senso contrario, ha ritenuto non sufficiente a far decorrere la prescrizione la sola consapevolezza del contagio da virus HIV, risalente già all’anno 1991, contagio in relazione al quale la possibile derivazione causale dall’emotrasfusione era emersa solo nell’anno 2004.

In via conclusiva, deve essere accolto il primo motivo di ricorso, con conseguente assorbimento del secondo e del terzo motivo, con rinvio alla Corte d’Appello indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame, da condurre nel rispetto dei principi di diritto che, sulla base delle considerazioni sopra esposte, di seguito si enunciano: a) nel giudizio risarcitorio promosso nei confronti del Ministero della Salute in relazione ai danni subiti per effetto della trasfusione di sangue infetto, il verbale redatto dalla Commissione medica di cui all’art. 4 della legge n. 210 del 1992 non ha valore confessorio e, al pari di ogni altro atto redatto da pubblico ufficiale, fa prova ex art. 2700 cod. civ. dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le diagnosi, le manifestazioni di scienza o di opinione costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice che, pertanto, può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può attribuire allo stesso il valore di prova legale; b) nel medesimo giudizio, il provvedimento amministrativo di riconoscimento del diritto all’indennizzo ex lege n. 210 del 1992, pur non integrando una confessione stragiudiziale, costituisce un elemento grave e preciso da solo sufficiente a giustificare il ricorso alla prova presuntiva e a far ritenere provato, per tale via, il nesso causale, sicché il Ministero per contrastarne l’efficacia è tenuto ad allegare specifici elementi fattuali non potuti apprezzare in sede di liquidazione dell’indennizzo o sopravvenute acquisizioni della scienza medica, idonei a privare la prova presuntiva offerta dal danneggiato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza che la caratterizzano; c) nel giudizio di risarcimento del danno il giudicato esterno formatosi fra le stesse parti sul diritto alla prestazione assistenziale ex lege n. 210 del 1992 fa stato quanto alla sussistenza del nesso causale fra emotrasfusione e insorgenza della patologia ed il giudice del merito è tenuto a rilevare anche d’ufficio la formazione del giudicato, a condizione che lo stesso risulti dagli atti di causa. Al giudice del rinvio è demandato anche il regolamento delle spese del giudizio di cassazione. Non sussistono le condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1 quarter, del d.P.R. n. 115/2002, comunque inapplicabile nei confronti di quelle parti che, come le Amministrazioni dello Stato, mediante il meccanismo della prenotazione a debito siano istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, con assorbimento del secondo e del terzo motivo, e rigetta il quarto motivo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, alla quale demanda anche di provvedere al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

Roma, così deciso nella camera di consiglio del 6 giugno 2023

Il Consigliere estensore Il Presidente

Annalisa Di Paolantonio

Laureata con lode in giurisprudenza presso l’Università degli studi di Napoli Federico II. Ho poi conseguito la specializzazione presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali, sono stata collaboratrice della cattedra di diritto pubblico comparato e ho svolto la professione di avvocato. Sono autrice e coautrice di numerosi manuali, alcuni tra i più noti del diritto civile e amministrativo. Sono inoltre autrice di numerosi articoli giuridici e ho esperienza pluriennale come membro di comitato di redazione. Per Lexplain sono editor per l'area "diritto" e per l'area "fisco". 
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