Le cause di esclusione del reato sono frequentemente definite anche come cause di giustificazione; scriminanti; esimenti o cause di liceità, esse rappresentano delle circostanze eccezionali per le quali un fatto – che si connota per essere un reato – non viene punito poiché la legge lo autorizza.
Per definire le esimenti, nel tempo, è intervenuta anche la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4035, del 21 marzo 1990 ritenendo che queste siano “cause che esimono dall’applicazione della pena”.
Proprio come i reati, anche gli illeciti amministrativi possono essere coperti da cause di giustificazione, così come prevede la Legge n. 689/81 che, ai sensi dell’art. 4, prevede che “non risponde delle violazioni amministrative colui che ha commesso il fatto adempiendo un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, oppure in stato di necessità o di legittima difesa”.
Cosa significa antigiuridicità
L’antigiuridicità assume una particolare connotazione sia nel diritto civile che nel diritto penale, definendo come antigiuridico quel comportamento in contrasto con la norma e che non possa essere inquadrato in nessuna delle cause di giustificazioni previste.
L’antigiuridicità nel diritto civile è inquadrata alla stregua dell’articolo 2043 c.c. e delle funzioni previste per l’illecito civile extracontrattuale – definito anche illecito aquiliano (riprendendo il nome dalla Lex Aquilia del III a.C.) – cioè quella condotta che viola un dovere e realizza un danno per l’inadempimento dell’obbligo.
Questa impostazione ha poi subito delle modificazioni interpretative e l’antigiuridicità ha cominciato a essere riconosciuta anche nei casi in cui ad essere lesa sia una situazione soggettiva indiretta altrui, anche se non esplicitamente prevista dall’ordinamento.
Così facendo, si ritengono protetti tutti gli interessi giuridici, patrimoniali e di fatto.
Nel diritto penale, l’antigiuridicità descrive il contrasto tra fatto e norma dell’ordinamento.
Altro non è che la verifica di una circostanza che non è compresa tra le cause di giustificazione e, per valutare l’antigiuridicità come tale, occorre svolgere un giudizio di relazione: cioè valutare la condotta in relazione alle norme penali, verificando se il comportamento le violi o meno.
Attraverso questo processo è possibile parlare anche di “antigiuridicità speciale”, ovvero quel giudizio di relazione compiuto al contrario. Non potendosi rinvenire esplicitamente la norma che censura quella condotta, il divieto può essere desunto da norme diverse da quelle incriminatrici: è il caso in cui nella norma vengono usate le espressioni “indebitamente”, “abusivamente”, “illegittimamente”, “senza giusta causa” o “senza necessità”ecc.
Caratteristiche delle scriminanti del reato
Le cause di esclusione del reato si distinguono in:
- cause di giustificazione, quelle che rendono il fatto lecito sin dall’origine;
- scusanti, cioè che minano il solo elemento soggettivo e fanno quindi venir meno la connotazione di colpevolezza del reo;
- cause di non punibilità, attraverso le quali lo Stato rinuncia a punire.
L’ordinamento riconosce alle scriminanti una propria rilevanza obiettiva a proposito della loro applicabilità.
L’articolo 59 del Codice Penale, intitolato Circostanze non conosciute o erroneamente supposte, prevede che:
“Le circostanze che attenuano o escludono la pena sono valutate a favore dell'agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti.
Le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.
Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore di lui.
Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
Il legislatore quindi ritiene che le scriminanti vengono riconosciute oggettivamente e applicate a prescindere che l’agente le conosca.
All’ultimo comma poi il riferimento è alle cd. esimenti putative, ovvero quelle che non esistono nella realtà ma sono tali solo nella mente di colui che agisce, creando delle situazioni al limite.
Un esempio? Il commerciante che spari a colui che finga di voler compiere una rapina.
Come nel nostro esempio, che realizza un’ipotesi di legittima difesa putativa poiché il commerciante crede di doversi difendere da una minaccia attuale e ingiusta, il risultato delle esimenti putative è di escludere la colpevolezza.
Vediamo insieme tutte le cause di giustificazione con esempi pratici e i casi non codificati dalla legge, partendo dal consenso prestato da chi ha diritto e arrivando fino a chi agisce in preda ad uno stato di necessità.
Il consenso dell’avente diritto
Esprimere il proprio consenso rappresenta la più ampia forma di libertà morale e autodeterminazione di ciascuno di noi. La libertà di decidere è espressione della libertà personale dell’individuo che, in quanto tale, è ritenuta inviolabile dall’articolo 13 della Costituzione.
Il consenso dell’avente diritto è una delle esimenti previste dal nostro ordinamento e trova la sua disciplina nell’art. 50 c.p.:
“Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne”.
Secondo la dottrina, il consenso deve essere considerato come un atto giuridico in senso stretto, un permesso prestato da chi ne ha diritto a favore del soggetto. Il titolare del diritto rinuncia alla tutela della sua posizione.
Perché il consenso sia valido, colui che è legittimato a prestare il placet deve farlo in modo libero e volontario, cioè non viziato da errore, violenza o dolo. Inoltre, il consenso deve essere lecito, non contrastare norme dell’ordinamento, l’ordine pubblico, il buon costume e deve sussistere al momento del fatto, deve essere attuale.
Oggetto del consenso può essere solo un diritto disponibile.
Il diritto non definisce esplicitamente quali siano, ma possono essere definiti a contrario – cioè partendo dai diritti indisponibili.
Sono diritti indisponibili quelli che appartengono alla collettività e che la legge protegge a prescindere dalla volontà di ciascuno, perché ritenuti di pubblico interesse.
Facciamo un esempio: gli interessi dello Stato-amministrazione (pensiamo infatti alla categoria di reati contro la PA); gli interessi dello Stato-comunità (come la tutela del sentimento religioso, dell’ordine pubblico, dell’incolumità); i diritti pubblici dei singoli individui (ad esempio, il privato non può consentire che la PA gli imponga un sacrificio non previsto dalla legge); la pubblica fede e la genuinità delle prove (un esempio può essere quello della moglie che, per soddisfare il creditore e con il suo consenso, firmi delle cambiali a firma propria e del marito assente).
Consenso putativo e Consenso presunto
Il consenso deve essere manifestato all’esterno affinché sia la dimostrazione della propria volontà.
Sebbene il consenso possa anche essere desunto da comportamenti univocamenti posti in essere (cioè in giuridichese interpretato per facta concludentia) ed essere quindi un consenso tacito, tale manifestazione può assumere anche caratteri spigolosi: è il caso del consenso putativo e del consenso presunto.
Si parla di consenso putativo nel caso in cui colui che agisce ritiene esistente il consenso del titolare del diritto. Il fatto compiuto non è lecito, ma l’azione è compiuta senza dolo – ovvero senza la coscienza e la volontà di arrecare un danno – quindi non è punibile in base al comma 3 dell’art. 59 c.p.: “Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
Il consenso putativo è causa di esclusione della colpevolezza.
Si parla invece di consenso presunto quando chi agisce sa di non aver ricevuto il consenso da chi è titolare del diritto, ma la compie ugualmente ritenendola interessante per il titolare del diritto.
Per la giurisprudenza, le accezioni di consenso tacito, putativo e presunto hanno una particolare rilevanza in tema di violenza sessuale.
La Corte di Cassazione, sent. n. 11 del 25 marzo 2000 è intervenuta prevedendo che anche se la vittima non manifesta il dissenso resta la violenza sessuale di gruppo.
Gli imputati ritenevano di aver agito "nel ragionevole convincimento della esistenza della scriminante di cui all’art. 50 c.p.” e che il dissenso della vittima non fosse stato percepito poiché non avrebbe avuto reazioni tali da contraddire i comportamenti dei suoi aggressori che, anzi, avrebbero agito nella convinzione di un consenso tacito della persona offesa.
I giudici, innanzitutto, hanno fatto luce sull’atteggiamento psicologico della persona offesa, ritenendola inerme durante la violenza poiché vittima della coazione psichica. La stessa infatti, inizialmente – vedendosi accerchiata, palpeggiata e denudata – avrebbe reagito manifestando in maniera inequivocabile il proprio dissenso e rifiuto ma successivamente, non riuscendo ad impedire la violenza, abbia assunto un atteggiamento del tutto passivo.
La Corte di Cassazione sul punto afferma: “il mancato consenso della donna agli atti sessuali si è manifestato in maniera non equivoca e percepibile agli agenti nel momento stesso in cui hanno iniziato l’iter criminoso.
Conseguentemente non possono invocare a loro giustificazione la circostanza di avere agito in presenza di un consenso dell’avente diritto tacito o presunto, che sarebbe stato prestato se richiesto, né putativo in quanto, stante la tempestiva ed evidente reazione della vittima, non potevano confidare erroneamente nella sua esistenza.
Inoltre non è richiesto che la vis fisica o morale posta in essere dagli agenti sia tale da annullare del tutto la volontà della parte lesa, ma è sufficiente che ne abbia minato la libera determinazione all’atto sessuale.
Agli effetti che interessano, la vittima deve ritenersi non consenziente anche quando è stata posta in una situazione che non le ha consentito una efficace e valida reazione”.
L’esercizio del diritto
L’articolo 51 del Codice Penale prevede che “l’esercizio di un diritto […] esclude la punibilità”. Infatti, se la legge legittima una determinata azione è evidente che il soggetto che la compie non può rispondere di un fatto illecito, ciò grazie al principio di non contraddizione.
Alla stregua dell'art. 51 c.p., la dottrina e la giurisprudenza riconducono casi particolari come il diritto di critica, diritto di cronaca, diritto di difesa e la disciplina familiare. Vediamo queste tipologie specifiche di seguito.
Il diritto di critica è una forma della manifestazione del pensiero tutelato dall’articolo 21 della Costituzione, ciò non significa che possa essere esercitato indiscriminatamente ma comunque, per la giurisprudenza, vi sono dei limiti oltre i quali il diritto di critica non deve spingersi. Il diritto di critica deve:
- rispettare i diritti degli altri, di pari livello costituzionale come la reputazione, l’onorabilità e la dignità;
- mantenere la correttezza del linguaggio.
Nell’ambito del diritto di critica è compresa anche la critica politica, purché le dispute – ancorché con toni aspri – non travalichino la sfera personale tale da offendere la vita privata.
Ogni volta in cui il limite venisse sorpassato, l’agente sarebbe chiamato a rispondere dell’illecito.
Il diritto di cronaca è un diritto pubblico soggettivo, anch’esso rientrante nella tutela ex art. 21 Cost.
Tale diritto. perché sia riconosciuto come scriminante, deve rispondere a 3 condizioni necessarie:
- utilità sociale, cioè perseguire un interesse pubblico di informazione;
- verità dei fatti esposti, come manifestazione di un lavoro serio e diligente;
- correttezza del linguaggio nell’esposizione.
Il diritto di difesa è un diritto garantito all’articolo 24 Cost., tuttavia, il suo esercizio non legittima le eventuali offese arrecate pur se nello scopo di difendersi.
Particolarità di tale diritto è riconosciuta al diritto di difesa della proprietà, ovvero il ricorso agli offendicula.
Gli offendicula sono i mezzi necessari a tutelare la proprietà di cui il proprietario è legittimato ad avvalersi (ne sono un esempio le schegge di vetro posizionate sul muretto, un cancello dalle punte acuminate, cani addestrati, le trappole, le recinzioni elettrificate, filo spinato ecc.).
Anche questi mezzi sono chiamati a rispettare dei limiti, specialmente nei casi in cui non siano in grado di distinguere autonomamente tra offensore e offeso: pensiamo a chi si appoggia al muretto ma si procuri dei tagli profondi a causa dei cocci e delle schegge di vetro.
Pertanto, gli offendicula sono autorizzati nel nostro ordinamento a patto che siano segnalati e ben visibili, mai camuffati e mimetizzati.
Infine, la disciplina familiare che è l’ipotesi in cui il genitore percuota, maltratti, il figlio per inculcargli l’educazione. Il fondamento di tale disciplina è nel diritto di correzione, ovvero ius corrigendi, a patto che non vada oltre la dignità umana e non travalichi i maltrattamenti familiari.
L’adempimento del dovere
Così come l’esercizio del diritto, l’adempimento del dovere ha la sua disciplina nell’art. 51 c.p. e prevede che:
“L'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo
della pubblica Autorità, esclude la punibilità.
Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell'Autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l'ordine.
Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo.
Non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine”.
In virtù del principio di non contraddizione, la legge non può ritenere legittimo un comportamento e poi sanzionarlo.
Il dovere deve discendere da una qualsiasi regola di diritto oppure da un rapporto di subordinazione di carattere pubblico.
Si ritiene che l’ordine è legittimo quando:
- il superiore abbia la competenza per emetterlo;
- l'inferiore abbia la qualifica per seguirlo;
- sussistano le formalità di legge e procedure sancite.
L’ordine illegittimo e la conflittualità tra ordini
L’ordine illegittimo sancisce la responsabilità a carico del pubblico ufficiale che l’abbia emesso. L’esecutore ne risponde penalmente assieme al pubblico ufficiale, tranne quando: per errore sul fatto abbia ritenuto di star obbedendo ad un ordine legittimo (ad esempio, nel caso in cui un generale ordini di sparare sulla folla adducendo lo stato d’assedio nonostante lo stesso sia concluso); per quando non ha alcun sindacato sulla legittimità degli ordini da parte della legge.
Cosa accade nel caso in cui gli ordini impartiti siano in contrasto tra loro?
Bisogna distinguere il caso del contrordine dal conflitto di ordini.
Per contrordine si intende quell’indicazione impartita dall'autorità che ha già emanato l’ordine ma che revoca il precedente a favore del secondo.
Diverso poi è distinguere se il contrordine provenga da un’autorità differente o dalla stessa originaria, in quel caso è al soggetto subordinato comprendere quale ordine prevalga e quindi a quale gerarchia attenersi.
Nel caso di conflitto di ordini si fa riferimento al caso in cui provengano da autorità diverse, perché appartenenti a comparti o amministrazioni differenti. L’inferiore è tenuto a valutare gli ordini e a quale prestare obbedienza.
La legittima difesa
La legittima difesa è disciplinata all’art. 52 c.p. e per il quale non può essere punito chi ha agito perché costretto dalla necessità di difendere sé o altri da un pericolo attuale o da un’offesa ingiusta, purchè la difesa sia proporzionata all’offesa.
L’esimente rileva sotto due caratteristiche, ovvero l’aggressione e la reazione.
Innanzitutto, oggetto dell’aggressione deve essere un diritto – o meglio un interesse giuridicamente rilevante – proprio o altrui.
Inoltre, l’offesa deve essere ingiusta, intesa come contraria all’ordinamento.
Il pericolo deve connotarsi dell’attualità, ovvero il pericolo deve essere incombente e perdurante, e non deve essere stato determinato dalla volontà dell’agente.
Per quanto riguarda la reazione, invece, essa deve essere determinata dal sentire la costrizione del pericolo che, a propria volta, genera la necessità di difendersi come soluzione inevitabile per sottrarsi alle conseguenze nefaste.
In termini di reazione ciò che assume una caratteristica particolare è la proporzionalità: essa è l’estrinsecazione del principio di bilanciamento per il quale il male provocato dall’aggredito all’aggressore è inferiore, uguale o tollerabile.
La proporzionalità è da intendersi non solo tra male minacciato e male inflitto, ma anche tra i mezzi utilizzati sia nell’aggressione che nella reazione.
Pensiamo al caso in cui, Tizio voglia compiere un furto armato di un sasso ma il negoziante Caio, sorprendendo Tizio con la refurtiva, spari il ladro alle spalle con un fucile.
Uso legittimo delle armi
L’uso legittimo delle armi è una delle esimenti del reato, disciplinata all’art. 53 c.p. che dispone:
“Ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti, non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all'Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.
La stessa disposizione si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza.
La legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l'uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica”.
La norma ha gettato le basi per i dibattiti tra dottrina e giurisprudenza per determinare se sia corretto ritenere l’uso legittimo delle armi come una causa di giustificazione a sé stante o debba essere vista come un’accezione più ampia dell’adempimento del dovere.
L’uso legittimo delle armi è un’esimente propria che può essere invocata solo dai p.u. che, per motivi d’ufficio, possono portare le armi senza licenza (polizia, carabinieri, guardia di finanza) ma è applicabile a tutti i soggetti che, su legale richiesta al pubblico ufficiale, prestino a questi assistenza.
La necessità invocabile per l’uso legittimo delle armi è di:
- respingere una violenza, intesa come impiego di energia fisica;
- vincere una resistenza, sia di effettiva opposizione (attiva) sia di fuga o inerzia (passiva);
- impedire il consumarsi di delitti di strage, naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.
Lo stato di necessità
Per stato di necessità si intende il caso in cui non è punibile colui che ha compiuto un’azione perchè costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che l’azione sia proporzionata al pericolo.
Per parlarsi di stato di necessità devono sussistere la situazione di pericolo e l’azione necessaria.
Per situazione di pericolo si intende quel danno attuale, ingiusto e che manifesta con un’alta probabilità che possa verificarsi da un momento all’altro.
Oggetto del pericolo può essere un danno grave (fisico o psicologico) alla persona.
L’azione lesiva posta in essere deve essere necessaria a salvare sè o altri dal pericolo e dal suo pregiudizio seguente. Al pari, l’azione deve però dimostrarsi proporzionata al male minacciato e non oltrepassarlo.
Cause di giustificazione non codificate
Oltre alle cause di giustificazione previste dall’ordinamento, come il consenso dell’avente diritto; l’esercizio di un diritto; l’adempimento di un dovere; la legittima difesa; l’uso legittimo delle armi e lo stato di necessità, l’ordinamento però tralascia ulteriori situazioni.
La legge , infatti, non codifica tutte le cause di giustificazione e alcune vengono rimesse alla prassi: ne sono un esempio l’attività sportiva, le informazioni commerciali, il trattamento medico, l’utilizzo di auto blu. Vediamole di seguito.
Nel caso dell’attività sportiva, parte della dottrina ricollega una causa di giustificazione non codificata e che si comporta come il consenso prestato dall’avente diritto.
Si sostiene, infatti, che lo sportivo presti il proprio consenso anche relativamente al rischio rappresentato dall’attività sportiva e che quindi acconsenta al caso in cui riportasse eventualmente lesioni (si pensi ai casi di sport notoriamente da contatto come il pugilato, il rugby, la lotta).
Il limite soggettivo dell’attività è dato dal fatto che, partecipare all’attività sportiva è libero ma, anche nel caso in cui le regole di gioco fossero rispettate e le lesioni si verificassero ugualmente, si riterrebbero causate da caso fortuito e accettate dal partecipante.
Ulteriore ipotesi è data dalle informazioni commerciali.
Le informazioni commerciali sono fornite dietro una precisa richiesta a più persone e per il contenuto che può assumere connotazioni offensive (pensiamo al caso in cui la réclame affermi che Tizio sia solito non assolvere ai suoi impegni).
Seppur formalmente l’ipotesi incarnerebbe la diffamazione, concretamente e prestando il proprio consenso, non è concretamente punibile.
Ancora, pensiamo al caso del trattamento medico-chirurgo, ove il paziente si presta a cure e interventi previa la sottoscrizione di un consenso informato. Il consenso informato, infatti, tralascia il caso in cui per particolari necessità ed urgenze terapeutiche, nel corso dell’intervento, si renda necessaria una pratica più grave di quella concordata con il paziente.
Infine, l’utilizzo delle auto blu, caso frequente nella cronaca. Si ritiene che, per non incorrere nella responsabilità del peculato o del peculato d’uso, sussista un consenso implicito prestato dall’avente diritto che . in questo caso – è l’ente che mette a disposizione il materiale al fine di rientrare nella scriminante.