La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 18 gennaio 2024, ha stabilito che il lavoratore che non ha goduto delle ferie ha diritto a un’indennità finanziaria sostitutiva anche se pone fine volontariamente al rapporto di lavoro.
La Corte di giustizia, a seguito di rinvio pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Lecce, ha sottolineato, in sostanza, il contrasto della normativa interna con quella sovranazionale che valorizza al massimo grado il diritto alle ferie del lavoratore.
In dettaglio, la Corte di giustizia, con sentenza del 18 gennaio 2024, resa in causa C 218/22, ha delineato il seguente principio di diritto:
“L’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, e l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che, per ragioni attinenti al contenimento della spesa pubblica e alle esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico, prevede il divieto di versare al lavoratore un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali retribuite maturati sia nell’ultimo anno di impiego sia negli anni precedenti e non goduti alla data della cessazione del rapporto di lavoro, qualora egli ponga fine volontariamente a tale rapporto di lavoro e non abbia dimostrato di non aver goduto delle ferie nel corso di detto rapporto di lavoro per ragioni indipendenti dalla sua volontà”.
I fatti di causa
La sentenza della Corte di giustizia (causa C 218-22), è stata resa a seguito di domanda di rinvio pregiudiziale depositata il 24 marzo 2022 dal Tribunale di Lecce, Sezione Lavoro, ai sensi dell’art. 19 c. 3 TUE e dell’art. 267 TFUE.
L’oggetto del ricorso riguarda il diritto del lavoratore, dipendente pubblico, a ricevere un’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute prima della fine del rapporto di lavoro in ipotesi di dimissioni volontarie.
In particolare, il rinvio pregiudiziale è relativo all’interpretazione dell’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, alla luce dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Ci si chiedeva se tale disposizione dovesse essere interpretata nel senso che essa osta a una norma del diritto nazionale in base alla quale non è dovuta alcuna indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute per l’ultimo anno di lavoro in corso, qualora il lavoratore o la lavoratrice, senza giusta causa, ponga fine anticipatamente e unilateralmente al rapporto di lavoro.
La questione nasceva a seguito di una prima domanda di dimissioni per accedere al pensionamento nel corso del 2015 inoltrata da un dipendente pubblico.
L’istituto previdenziale (INPS) comunicava che l’istanza di pensione ordinaria “non poteva essere accolta in quanto non rispettava i requisiti, per essere ammesso a pensione…”.
Il dipendente rimaneva quindi in servizio e, successivamente, il Comune datore di lavoro prendeva atto dell'istanza presentata dal dipendente di dimissioni volontarie e di collocamento in pensione anticipata dal 1 ottobre 2016.
Il dipendente cessava quindi dal servizio per dimissioni volontarie con decorrenza 1.10.2016.
Il dipendente affermava di non aver goduto – nel periodo 2013- 2016 – di 79 giorni di ferie e ne chiedeva quindi la monetizzazione affermando di non averne potuto usufruire durante il periodo in cui prestava servizio.
Il Comune, nel costituirsi, faceva presente che il ricorrente aveva fruito di ferie nel corso del 2016 e che il residuo di ferie non era stato goduto anche alla luce delle dimissioni dello stesso.
Invocava, inoltre, la disciplina di cui all’art. 5 c. 8 d.l. 95/2012.
La Corte costituzionale italiana, con la sentenza n. 95/2016 aveva ritenuto compatibile la normativa nazionale con i principi costituzionali in materia.
Il testo del citato comma 8 dell’art. 5 articolo d.l. 95/2012 così recita: “Le ferie, i riposi e i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonché delle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi.
La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età.
Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto. La violazione della presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile.
Il presente comma non si applica al personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliario supplente breve e saltuario o docente con contratto fino al termine delle lezioni o delle attività didattiche, limitatamente alla differenza tra i giorni di ferie spettanti e quelli in cui è consentito al personale in questione di fruire delle ferie”.
I dubbi di costituzionalità sollevati in relazione alla norma di cui al citato d.l. 95/2012 art. 5 comma 8 sono stati ritenuti infondati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 95/2016.
La Corte ha infatti affermato che nell’ipotesi in cui il lavoratore si dimette volontariamente, ha tempo di pianificare la fruizione delle ferie e la normativa vista appare coerente con la finalità reprimere il ricorso incontrollato alla “monetizzazione” delle ferie non godute, anche al fine di contenere la spesa pubblica.
Così correttamente interpretata, secondo la Corte costituzionale, la disciplina in questione non pregiudica il diritto alle ferie, come garantito dalla Carta fondamentale (art. 36, comma terzo), dalle fonti internazionali e da quelle europee.
Il Tribunale di Lecce, tuttavia, ha ritenuto di rinviare alla Corte alla luce della normativa sovranazionale.
Vengono in rilievo, in particolare, i considerando 4 e 5 della direttiva 2003/88 :
“Il miglioramento della sicurezza, dell’igiene e della salute dei lavoratori durante il lavoro rappresenta un obiettivo che non può dipendere da considerazioni di carattere puramente economico.
Tutti i lavoratori dovrebbero avere periodi di riposo adeguati. Il concetto di “riposo” deve essere espresso in unità di tempo, vale a dire in giorni, ore e frazioni d’ora. I lavoratori della Comunità devono beneficiare di periodi minimi di riposo giornaliero, settimanale e annuale e di adeguati periodi di pausa. È anche necessario, in tale contesto, prevedere un limite massimo di ore di lavoro settimanali”.
L’articolo 7 della direttiva, intitolato «Ferie annuali», dispone:
“Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuale retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali. 2. Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro”.
L’art. 17 della direttiva prevede che:
“Gli Stati membri possano derogare a talune disposizioni di quest’ultima. Tuttavia nessuna deroga è ammessa per quanto riguarda l’articolo 7 della stessa”.
Inoltre, l’art. 31 c. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea dispone:
“Ogni lavoratore ha diritto a una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite”.
La giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea si è più volte espressa in materia.
La Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 6 novembre 2018 in C-684/16n ha statuito che:
“L’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, e l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale, come quella discussa nel procedimento principale, in applicazione della quale, se il lavoratore non ha chiesto, nel corso del periodo di riferimento, di poter esercitare il suo diritto alle ferie annuali retribuite, detto lavoratore perde, al termine di tale periodo – automaticamente e senza previa verifica del fatto che egli sia stato effettivamente posto dal datore di lavoro, segnatamente con un’informazione adeguata da parte di quest’ultimo, in condizione di esercitare questo diritto –, i giorni di ferie annuali retribuite maturati per tale periodo ai sensi delle suddette disposizioni, e, correlativamente, il proprio diritto a un’indennità finanziaria per dette ferie annuali non godute in caso di cessazione del rapporto di lavoro. Il giudice del rinvio è, a tale riguardo, tenuto a verificare, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo complesso e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, se gli sia possibile pervenire a un’interpretazione di tale diritto che sia in grado di garantire la piena effettività del diritto dell’Unione”.
Alla luce di ciò, è intervenuta la Corte di giustizia.
La sentenza della Corte di giustizia
In via preliminare, la Corte di giustizia ha ricordato che, secondo costante giurisprudenza della stessa Corte, il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un “principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione europea, al quale non si può derogare e la cui attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla direttiva 2003/88”.
Per questo motivo, l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, “il quale dispone che gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali, riflette e concretizza il diritto fondamentale a un periodo annuale di ferie retribuite sancito dall’articolo 31, paragrafo 2, della Carta”.
Ha inoltre aggiunto la Corte che: “il diritto alle ferie annuali costituisce solo una delle due componenti del diritto alle ferie annuali retribuite quale principio fondamentale del diritto sociale dell’Unione. Tale diritto fondamentale include quindi anche il diritto a ottenere un pagamento nonché, in quanto diritto connaturato a detto diritto alle ferie annuali «retribuite», il diritto a un’indennità finanziaria per le ferie annuali non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro”.
La conseguenza è che, conformemente all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, “un lavoratore, che non sia stato in condizione di usufruire di tutte le ferie annuali retribuite prima della cessazione del suo rapporto di lavoro, ha diritto a un’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute. A tal fine è privo di rilevanza il motivo per cui il rapporto di lavoro è cessato. Pertanto, la circostanza che un lavoratore ponga fine, di sua iniziativa, al proprio rapporto di lavoro, non ha nessuna incidenza sul suo diritto a percepire, se del caso, un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite di cui non ha potuto usufruire prima della cessazione del rapporto di lavoro”.
Tale disposizione, dunque, “osta a disposizioni o pratiche nazionali le quali prevedano che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia versata alcuna indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute al lavoratore che non sia stato in condizione di fruire di tutte le ferie annuali cui aveva diritto prima della cessazione di tale rapporto di lavoro, in particolare perché era in congedo per malattia per l’intera durata o per una parte del periodo di riferimento e/o di un periodo di riporto”.
Per questi motivi, la Corte di Giustizia ha statuito il seguente principio di diritto:
“L’articolo 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, e l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che, per ragioni attinenti al contenimento della spesa pubblica e alle esigenze organizzative del datore di lavoro pubblico, prevede il divieto di versare al lavoratore un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali retribuite maturati sia nell’ultimo anno di impiego sia negli anni precedenti e non goduti alla data della cessazione del rapporto di lavoro, qualora egli ponga fine volontariamente a tale rapporto di lavoro e non abbia dimostrato di non aver goduto delle ferie nel corso di detto rapporto di lavoro per ragioni indipendenti dalla sua volontà”.