La Corte costituzionale, con sentenza del 22 febbraio 2024, n. 22, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, primo comma, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, il cosiddetto "Jobs Act", limitatamente al termine “espressamente”.
La norma in questione è stata cioè ritenuta incostituzionale nella parte in cui, nel riconoscere la tutela reintegratoria ai lavoratori licenziati illegittimamente, nelle ipotesi di nullità previste dalla legge, l’ha limitata alle sole nullità previste “espressamente”.
La Corte costituzionale, infatti, ha sottolineato che il riferimento ai “licenziamenti nulli”, contenuto nella legge delega non recava la distinzione tra nullità espresse e nullità non espresse, mentre il legislatore delegato, al contrario, ha differenziato la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro sulla base del carattere espresso o non espresso della nullità.
La previsione della tutela reintegratoria limitatamente ai casi di nullità espressa ha inoltre lasciato prive di disciplina le ipotesi in cui il licenziamento è nullo per violazione di norme imperative, ma non vi è una sanzione espressa che sancisce la nullità.
A seguito della dichiarazione di incostituzionalità della Corte, il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia quando ricorra l’espressa sanzione della nullità, sia quando la nullità non sia espressamente comminata.
In questo modo, la Corte costituzionale ha esteso l’ambito di applicabilità della tutela reintegratoria a favore dei lavoratori licenziati illegittimamente.
Vediamo, in dettaglio, cosa ha stabilito la Corte costituzionale.
I fatti di causa
La Corte di cassazione, con ordinanza del 7 aprile 2023, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23.
Secondo la Corte costituzionale, il cosiddetto "Jobs Act", avrebbe un contenuto difforme rispetto al criterio di delega dettato dall’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183.
Il giudizio principale era stato promosso da un dipendente che era stato assunto con mansioni di autista in data successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, e che era stato raggiunto da una contestazione disciplinare seguita dalla comunicazione dell’opinamento alla destituzione.
Il provvedimento disciplinare di destituzione era stato tempestivamente impugnato al fine di veder accertata la nullità del licenziamento per contrarietà alle norme imperative in materia di procedure per l’irrogazione di sanzioni disciplinari, ovvero perché di natura discriminatoria.
La Corte d’appello di Firenze aveva configurato la violazione di una forma di garanzia procedurale e dichiarato la nullità del procedimento disciplinare e della conseguente sanzione.
La stessa Corte d’appello, tuttavia, aveva escluso la possibilità di reintegra del lavoratore poiché la disciplina di cui all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 riservava la sanzione della reintegra al licenziamento discriminatorio o “riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”.
Il caso in questione, secondo la Corte, non rientrava nei casi di nullità espressa e per questo, a favore del lavoratore, stabiliva una tutela esclusivamente indennitaria ex art. 3 dello stesso decreto legislativo.
La sentenza veniva impugnata in cassazione da entrambe le parti.
Veniva sollevata questione di legittimità costituzionale.
La Corte di cassazione rimettente, in particolare, riteneva rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 76 Cost., della delimitazione a opera della norma censurata della tutela reintegratoria ai soli casi di nullità “espressamente previsti dalla legge”, per contrasto con la norma della legge delega che dispone la limitazione del “diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”, non effettuando alcuna distinzione tra ipotesi di nullità espressamente previste dalla legge e ipotesi di nullità non espressamente sancite.
La sentenza della Corte costituzionale
La Corte costituzionale ha ricordato, in primo luogo, che la legge 28 giugno 2012, n. 92 ha novellato l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Il sistema che veniva fuori dalla novella era caratterizzato da plurimi regimi di tutela, reintegratoria e indennitaria, in ipotesi di licenziamento individuale illegittimo.
In questo modo veniva superato il carattere unitario della tutela reintegratoria per i licenziamenti individuali e collettivi.
In pratica, il legislatore del 2012 aveva ritenuto di riservare la tutela della reintegrazione ai licenziamenti la cui illegittimità fosse conseguenza di una violazione “più grave”; nelle altre ipotesi veniva invece prevista una compensazione indennitaria.
A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, la disciplina del licenziamento nullo è regolata dall’art. 2, che tiene distinti il licenziamento discriminatorio e quello nullo, e che prevede: “Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto”.
La fattispecie unitaria di cui all’art. 18 statuto lavoratori, in tal modo, ha chiarito la Corte costituzionale, si sdoppia: da un lato, il licenziamento “espressamente” nullo; dall’altro, il licenziamento nullo, ma senza l’espressa previsione della nullità.
Quanto alla questione di legittimità costituzionale, per la Corte, essa è fondata.
Secondo il criterio direttivo fissato dall’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014: “il Governo è delegato ad adottare, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, di cui uno recante un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro», «[a]llo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva”.
In particolare, veniva delegata la “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”.
Secondo la Corte costituzionale, muovendo dall’interpretazione della legge di delega, manca del tutto la distinzione tra nullità “espressamente” previste e nullità conseguenti sì alla violazione di norme imperative, ma senza l’espressa loro previsione come conseguenza di tale violazione.
Il prescritto mantenimento del diritto alla reintegrazione, infatti, è contemplato per i “licenziamenti nulli” tout court.
La distinzione tra nullità espresse e nullità che tali non sono, per la Corte, non è, dunque, riconducibile al criterio di delega nella sua portata testuale.
Questo è evincibile anche effettuando una interpretazione sistematica: “la limitazione alla nullità testuale appare eccentrica rispetto all’impianto della delega che mira ad introdurre per le «nuove assunzioni» una disciplina generale dei licenziamenti di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, a copertura integrale per tutte le ipotesi di invalidità”.
In conclusione, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alla parola “espressamente”.
Ha chiarito la Corte che, “per effetto di tale pronuncia il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra anche l’espressa (e testuale) sanzione della nullità, sia che ciò non sia espressamente previsto, pur rinvenendosi il carattere imperativo della prescrizione violata e comunque «salvo che la legge disponga diversamente». Occorre, però, pur sempre che la disposizione imperativa rechi, in modo espresso o no, un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti”.
In ultimo la Corte ha ricordato che “spetta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari” (sentenza n. 150 del 2020).