Insulti omofobi e derisioni di genere sono solo alcuni dei motivi che possono portare il responsabile verso il licenziamento per giusta causa.
Spesso la cronaca ha riportato episodi in cui un collega, insultando e deridendo in maniera sistematica con frasi omofobe uno dei dipendenti, abbia pagato il suo scherno con il licenziamento in tronco.
In più di un'occasione il TAR ha rigettato il ricorso avverso il licenziamento, confermando come l’atteggiamento di offesa alla dignità personale e all’orientamento sessuale del collega rientri pienamente tra le ragioni di licenziamento per giusta causa.
Il Giudice, allo scopo di ricostruire gli episodi oggetto del giudizio, può chiedere le testimonianze dei dipendenti colleghi della vittima. Questi, infatti, potranno deporre sui fatti e le circostanze in cui abbia sentito, assistito o partecipato alle vessazioni nei confronti del collega deriso.
Mentire nel corso dell'esame testimoniale è un reato che può portare alla condanna per falsa testimonianza, di cui all’art. 372 del Codice Penale.
Cerchiamo di spiegare il licenziamento disciplinare e il reato di falsa testimonianza.
Licenziamento disciplinare
Si parla di licenziamento disciplinare sulla scorta dei comportamenti e le condotte scorrette tenute dal dipendente.
Il datore di lavoro può scegliere di recedere unilateralmente il contratto di lavoro e quindi licenziare il lavoratore per la violazione dei diritti e dei doveri sottoscritti al momento di assunzione.
Nel caso in cui il comportamento del lavoratore fosse così grave da non consentire, neppure temporaneamente, la prosecuzione del rapporto, il datore di lavoro potrà scegliere di licenziare senza preavviso il dipendente: a dirlo è l’art. 2119 c.c., ovvero il licenziamento per giusta causa.
L’art. 2119 c.c. dispone:
“Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente.
Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto la liquidazione coatta amministrativa dell’impresa. Gli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro sono regolati dal codice della crisi e dell’insolvenza”.
Il licenziamento per giusta causa è uno dei due risvolti ricompresi nell’accezione di licenziamento disciplinare, ed è possibile solo a seguito del procedimento disciplinare esperito dal datore di lavoro nei confronti del dipendente.
Secondo l’art. 7 della Legge 20 maggio 1970, n. 300 (cd. Statuto dei Lavoratori , infatti, “il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa”.
Il perché è presto spiegato: il datore, prima di procedere all’adozione di una sanzione, ha l’obbligo di specificare la contestazione al dipendente permettendogli di fornire le proprie giustificazioni.
Tuttavia fra le sanzioni ve n’è una più severa, in ragione dell’illecito commesso, e che non consente la conservazione del posto di lavoro: parliamo del licenziamento disciplinare.
Insulti e offese possono costare il licenziamento?
La risposta è sì, rivolgere insulti e offese ai colleghi possono costare il posto di lavoro poichè tra i diritti e i doveri dei dipendenti vi è anche il rispetto della dignità e dell’onore personale.
I contratti collettivi prevedono uno specifico motivo in caso di licenziamento disciplinare per giusta causa, ne è un esempio l'art. 114 del CCNL Industria turistica:
“Ricadono sotto il provvedimento del licenziamento per “giusta causa” le seguenti infrazioni:
[…]
f) diverbio litigioso seguito da vie di fatto, gravi offese alla dignità, all’onore o gravi fatti di pregiudizio agli interessi del proprietario, della sua famiglia, dei superiori, della clientela e dei colleghi di lavoro, previo accertamento delle responsabilità sul fatto avvenuto”.
La norma è chiara: insultare e offendere i colleghi è uno dei motivi che possono portare il datore di lavoro a licenziare per giusta causa il dipendente, previa verifica delle responsabilità sulle circostanze.
Secondo il Tribunale le frasi del manager sono state “un’offesa alla dignità personale e all’orientamento sessuale”, tanto da essere valutate anche dai responsabili del noto parco di divertimento come “inammissibili atti di derisione”.
Nel particolare, in tema di offese di contenuto omofobe nei confronti di un collega, è intervenuta di recente la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza 9 marzo 2023, n. 7029 e a proposito di un altro episodio di frasi denigratorie verficatosi qualche mese fa.
Gli ermellini hanno infatti ritenuto che "qualunque scelta di orientamento sessuale merita rispetto" e che la condotta configuri a tutti gli effetti "una forma di discriminazione" che deve essere sanzionata anche a costo del licenziamento in tronco,
Il reato di falsa testimonianza
Essere chiamati a testimoniare e mentire sulle circostanze pur conoscendo la verità, è un reato disciplinato dall’articolo 372 del Codice Penale.
Si parla di falsa testimonianza e si rischia il carcere da un minimo di 2 anni al massimo di 6.
Il testimone è colui che, ad esempio per essere stato presente ai fatti, conosce le circostanze su cui verte il giudizio. Il testimone ha l’obbligo di presentarsi in tribunale e, se citato come testimone, non può rifiutarsi.
Tra gli obblighi del testimone vi è l’obbligo di rispondere secondo verità, ovvero non mentire nel fornire le risposte alle domande rivoltegli dall’Autorità e di dichiarare tutto ciò di cui sia a conoscenza.
L’art. 372 c.p. punisce il comportamento del testimone che testimoni il falso:
“Chiunque, deponendo come testimone innanzi all'Autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale, afferma il falso o nega il vero, ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato, è punito con la reclusione da due a sei anni”.
Il reato individua tre forme di manifestazione che si intendono come reato per il testimone: mentire affermando il falso; negare la verità; serbare un silenzio reticente.