Il mercato dei prodotti e servizi “green” oggi è in forte e continua espansione ed è sempre facile trovare claim che suggeriscono che un prodotto o un servizio offerto offrono un ridotto impatto ambientale.
Ma è davvero così?
Cos’è il Greenwashing
Il Greenwashing è volgarmente detto “ambientalismo di facciata” ovvero una strategia di comunicazione che proclama l’impegno ambientale senza alcun riscontro con la realtà.
Il cambiamento verso una sostenibilità costa, e non tutti vogliono farsi realmente carico di questo costo.
D’altro canto, il riferimento alla sostenibilità ambientale ed etica diventa sempre più importante per attirare i consumatori e aumentare il prestigio del brand.
Secondo un report della Commissione Europea, pubblicato nel 2021, è stato accertato che nel 42% dei siti web aziendali che dichiarano che i loro prodotti sono eco friendly, contengono “green claim” ingannevoli o pratiche commerciali scorrette.
Non a caso, è attualmente al vaglio presso il Parlamento Europeo una proposta di Direttiva che modifica le direttive 2005/29/CE e 2011/83/UE per quanto riguarda la responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell'informazione contro le pratiche commerciali sleali, all’interno del pacchetto sulla Circular Economy.
Letteralmente è la fusione di due termini inglesi: green, ovvero verde, il colore dell’ecologismo, e washing, dal verbo “to wash”, “lavare”.
Quindi in pratica con “Greenwashing” si indica quella strategia comunicativa adottata da aziende, organizzazioni e istituzioni politiche che consiste nel proclamare un grande impegno ambientale e sociale senza alcun effettivo riscontro concreto.
Chi opera Greenwashing enfatizza i propri sforzi (scarsi quando non inesistenti) per diminuire l’impatto ambientale delle produzioni e si promuove come ecofriendly senza però avviare davvero un effettivo processo di cambiamento in chiave sostenibile.
La differenza tra green marketing e Greenwashing si fonda proprio sulla verificabilità del basso impatto ambientale dei prodotti e dei processi produttivi: un impatto reale nel caso del green marketing, mentre è di sola facciata nel caso del greenwashing.
L’obiettivo del Greenwashing è duplice:
- allargare il proprio bacino di utenza attraendo i consumatori attenti alla sostenibilità;
- distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da eventuali difetti del prodotto o dai danni per l’ambiente procurati dalle proprie attività produttive.
Greenwashing da dove proviene
Il termine “Greenwashing” è stato usato per la prima volta dall’ambientalista statunitense Jay Westerverd nel 1986 il quale denunciò come Greenwashing la pratica delle catene alberghiere di disincentivare i clienti al consumo di asciugamani in tal caso, infatti, a fronte di una comunicazione incentrata sull’impatto ambientale del lavaggio, l’obiettivo era la convenienza economica data dalla riduzione dei costi.
Il vocabolo ha avuto poi enorme diffusione nel corso degli anni Novanta, a seguito delle pratiche di aziende chimiche e petrolifere americane che si promuovevano eco-friendly per nascondere i danni ambientali e provocati dalle loro attività soprattutto in Canda.( lo stesso Steven Seagal, noto attore action di quell’epoca, girò un film a sullo sfruttamento dei pozzi petroliferi in Nord America e sui danni da essi derivanti facenti passare per Greenwashing).
Successivamente al fenomeno diffusosi a partire dagli anni Novanta, la conoscenza e consapevolezza delle problematiche ambientali sono cresciute, insieme all’orientamento dei cittadini verso scelte più ecosostenibili.
Riconoscere il fenomeno del Greenwashing
Innanzitutto è opportuno che i consumatori, che oggi sono sempre più attenti alla sostenibilità delle imprese, siano in grado di riconoscere tale fenomeno osservando criticamente la comunicazione aziendale.
Per farlo sarà necessario fare attenzione a:
- utilizzo da parte delle aziende di un linguaggio (anche slogan) vago e aleatorio o, al contrario, talmente tecnico da risultare fuorviante e incomprensibile;
- uso di immagini che raffigurano soggetti naturali o con prevalenza del colore verde per rievocare l’ambiente e quindi l’interesse del brand verso l’ecologia;
- divulgazione di dati ambientali non supportati da terze parti o da informazioni facilmente reperibili;
- indicazioni vaghe sul prodotto, tanto che il loro stesso significato può essere frainteso dal cliente;
- inserimento di certificazioni contraffatte o etichette false.
Perché un brand possa definirsi sostenibile, infatti, tutto il processo produttivo deve essere a basso o a zero impatto ambientale e non è sufficiente, ad esempio, inserire, a fronte di intere collezioni di abbigliamento, solamente una quantità minima di capi a basso impatto ambientale.
Green Claim cos'è e come si riconosce un claim falso da uno vero
Quando leggiamo su un etichetta le parole come “biodegradabile”, “ecosostenibile”, “amico della natura” ovvero un “green claim” ecco, in tali casi dobbiamo drizzare le orecchie, in quanto tali affermazioni dirette a suggerire o anche solo ad evocare il minore o ridotto impatto ambientale del bene o servizio proposto sul mercato, dando l'idea che la produzione di quel prodotto sia meno dannoso per l'ambiente rispetto a quelli concorrenti spesso sono false.
I prodotti “greenwashed” vengono solitamente messi in commercio con dichiarazioni che sembrano utili e importanti, ma che nella realtà sono impossibili da definire.
Alcuni termini, come “biologico” ad esempio, sono accompagnati da una certificazione e hanno definizioni legali e requisiti specifici per l’uso.
Al contrario, quando ci imbattiamo in termini come “naturale”, “non tossico”, “sostenibile” o negli internazionali “earth friendly”, “certified green”, “eco”, “verde” o “chemical free” , questi sono così ampi e senza specifica definizione o certificazione che sono essenzialmente privi di significato.
Essi danno la percezione di un prodotto responsabile e rispettoso dell’ambiente, senza però dare concrete garanzie.
Se prendiamo come esempio alcuni prodotti alimentari etichettati come “a basso contenuto di grassi” vediamo che in essi il claim potrebbe essere accurato, ma il suo obiettivo principale sarà quello di nascondere le grandi quantità di zucchero aggiunto. Questi alimenti, quindi, non sono più sani delle loro versioni normali e piene di grassi.
Il "Greenwashing" conta quindi sul fatto che il pubblico sia poco attento e male informato oltre che pigro nell'approfondire quelle vaghe dichiarazioni apposte sulle etichette. L’unico modo per individuare le affermazioni non veritiere è la ricerca di dati che le confermino.
Per essere veritieri, i claim riportati in etichetta dovrebbero essere confermati da terze parti affidabili e neutrali e opportune certificazioni ufficiali, rilasciate da organizzazioni imparziali.
La carta, ad esempio, porta spesso il simbolo del riciclaggio e le parole “contenuto riciclato”; in tal caso la carta può contenere il 10% di contenuto riciclato, mentre il resto è costituito da polpa vergine raccolta in modo non sostenibile.
Nei casi poi in cui la carta è riciclata al 100%, non significa necessariamente che sia più sostenibile. In alcuni casi infatti, la carta potrà essere fortemente sbiancata nel tentativo di conferire l’aspetto bianco brillante della carta non riciclata e pertanto potrebbe sprecare più acqua e creare più inquinamento rispetto alla carta normale.
Infine sono celebri anche gli esempi che riscontriamo nell’insostenibile settore del Fast Fashion, dove si sfornano decine di collezioni l’anno, vendute a prezzi irrisori in tutto il mondo.
Siamo in presenza di brand che sfornano qualche collezione “verde” “responsabile” che oltre a non esserlo realmente, è insignificante rispetto all’enormità del resto del business che non hanno intenzione di abbandonare. Quindi state attenti quando acquistate prodotti provenienti da marchi che si professano ecofriendly e che allo stesso tempo vendono a basso costo.
La modifica delle direttive sui diritti dei consumatori
La proposta di modifica alla direttiva di cui abbiamo parlato poc’anzi si prefigge l’obiettivo di rafforzare i diritti dei consumatori nell’ambito della transizione verde, andando a modificare le direttive 2005/29/CE (relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori) e 2011/83/UE (sui diritti dei consumatori).
La proposta (qui il testo originario della Commissione,) è stata già approvata dal trilogo (19 settembre 2023)
Relativamente alla tematica dei green claim, tale proposta di direttiva:
- fornisce la definizione di green claim, ossia un “messaggio o dichiarazione avente carattere non obbligatorio a norma del diritto dell’Unione o del diritto nazionale, compresi testi e rappresentazioni figurative, grafiche o simboliche, in qualsiasi forma, tra cui marchi, nomi di marche, nomi di società o nomi di prodotti, che asserisce o implica che un dato prodotto o professionista ha un impatto positivo o nullo sull’ambiente oppure è meno dannoso per l’ambiente rispetto ad altri prodotti o professionisti oppure ha migliorato il proprio impatto nel corso del tempo”;
- vieta di esibire marchi di sostenibilità non certificati o non stabiliti da autorità pubbliche;
- vieta le asserzioni ambientali generiche, a meno di una comprovata eccellenza delle prestazioni ambientali del professionista/prodotto reclamizzato e, in ogni caso, laddove le prestazioni ambientali migliori riguardino solo un aspetto specifico;
- Vieta le dichiarazioni basate su schemi di compensazione delle emissioni CO2 che attestano che un prodotto ha un impatto neutro, ridotto o positivo sull’ambiente.
I green claim, da intendersi secondo la definizione sopra riportata, si sono finora sviluppati in un contesto normativo non completamente armonizzato e la mancanza di uno standard comune specifico ha portato ad asserzioni non sufficientemente documentate o basate su metodi di calcolo imprecisi oppure non verificabili facilmente.
In particolare, il quadro normativo (di carattere generico) a cui ci riferiamo è costituito dalle direttive 2005/29/CE e 2006/114/CE, che regolamentano rispettivamente le pratiche commerciali business-to-consumers (“B2C“) e la pubblicità comparativa, stabilendo i principi di massima di ogni forma di comunicazione ai consumatori, tra cui quello per cui la pubblicità deve essere chiara, specifica, non ambigua ed accurata.
L’obiettivo della Direttiva in esame, dunque, è quello di creare un contesto regolatorio specifico basato su principi e metodi a supporto delle asserzioni ambientali, garantendo ai consumatori informazioni affidabili, complete e comparabili, così che possano effettuare scelte di acquisto consapevoli. La Direttiva, infatti, si applica esclusivamente alla comunicazione B2C.
Essa, inoltre, copre solo le tematiche di sostenibilità ambientale, con esclusione della sostenibilità economica e sociale.
La Direttiva, infine, disciplina solo i claim espliciti, ossia quelli ove l’asserzione ambientale appare in forma testuale o è riportata in un marchio ambientale.
Divieto di pubblicità ingannevole e dichiarazioni ambientali generiche
Nella proposta di modifica sono presenti alcune richieste e il mandato approvato dal Parlamento prevede di vietare l'uso di indicazioni ambientali generiche come "rispettoso dell'ambiente", "naturale", "biodegradabile", "neutrale dal punto di vista climatico" o "ecologico" se non sono accompagnate da prove dettagliate. Mira inoltre a vietare le dichiarazioni ambientali basate esclusivamente su sistemi di compensazione delle emissioni di carbonio. Saranno vietate anche altre pratiche ingannevoli come fare dichiarazioni sull'intero prodotto se la dichiarazione è vera solo per una parte di esso, o affermare che un prodotto durerà un certo periodo di tempo o potrà essere utilizzato con un determinato livello di intensità se ciò non è vero.
Per semplificare le informazioni sui prodotti, si prevede la possibilità di autorizzare solo etichette di sostenibilità basate su sistemi di certificazione ufficiali o stabiliti da autorità pubbliche.
Correlazione della norma sul Greenwashing con altre normative
La tematica della sostenibilità ambientale di prodotti è complessa e va letta alla luce anche di altre normative euro-unitarie, quali:
- Il “Regolamento Tassonomia” e atti delegati, relativi alle informazioni gli investitori sul carattere ecosostenibile di un’attività economica;
- Proposta di regolamento sulla progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili, che stabilisce un quadro per la definizione di requisiti di progettazione ecocompatibile per gruppi specifici di prodotti, al fine di migliorarne la circolarità, le prestazioni energetiche e altri aspetti di sostenibilità ambientale;
- Proposta di revisione della legislazione UE sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, che propone misure come la minimizzazione degli imballaggi, l’inclusione obbligatoria di percentuali di plastica riciclata nei nuovi imballaggi in plastica, il divieto di imballaggi evitabili per determinati usi e l’attuazione a livello nazionale di sistemi di deposito e restituzione (“DRS“) per gli imballaggi riutilizzabili (vedi un nostro approfondimento qui);
- Proposta di regolamento sulla certificazione UE per l’assorbimento del carbonio, che introduce un quadro volontario per certificare l’assorbimento di carbonio;
- Comunicazione della Commissione “Quadro politico dell’UE sulle bioplastiche, plastiche biodegradabili e compostabili“, non giuridicamente vincolante, che apporta chiarimenti sulle bioplastiche (“biobased“), plastiche biodegradabili e compostabili e stabilisce le condizioni per garantire che l’impatto ambientale complessivo della loro produzione e consumo sia positivo.
In generale, come detto, tutte le asserzioni ambientali B2C rientrano nell’ambito di applicazione della Direttiva, ma se un operatore utilizza un’asserzione che si riferisce ad aspetti specificamente coperti da un altro atto legislativo più specifico, questo si applica in forza del principio di specialità. Ad esempio, se la rivendicazione fa riferimento all’ecodesign di un prodotto, si deve tenere conto del Regolamento sulla progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili.
Entrata in vigore ed applicazione della direttiva sui green claim
Il 3 aprile 2023 la proposta di Direttiva è stata discussa in Consiglio dell’Unione Europea dal ‘Gruppo di lavoro sull’ambiente’ e dal ‘Gruppo di lavoro sulla protezione e l’informazione dei consumatori’.
Il 23 maggio 2023 il testo è stato esaminato dal Parlamento Europeo nella ‘Commissione per il mercato interno e la protezione dei consumatori’ (IMCO).
Durante le discussioni, gli eurodeputati hanno sollevato una serie di questioni al testo originario della Commissione, come ad esempio la necessità di garantire la corretta attuazione della normativa vigente in materia di tutela dei consumatori e la necessità di limitare l’onere amministrativo per le imprese, comprese le piccole e medie (PMI).
La proposta dovrà ora essere negoziata nell’ambito del ‘trilogo’ (Commissione, Parlamento, Consiglio dell’UE) prima di essere formalmente votata dal Parlamento nella sua versione finale e licenziata dal Consiglio.
La Direttiva entrerà in vigore il ventesimo giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, mentre gli Stati Membri avranno 18 mesi dall’entrata in vigore per attuarla nel proprio ordinamento interno. Per quanto concerne l’applicazione delle disposizioni nazionali così introdotte (tra cui, quelle relative alle sanzioni), la data di inizio sarà di 24 mesi dall’entrata in vigore della Direttiva.
Bisogna tener presente però che la Direttiva non entrerà in vigore prima del 2024 inoltrato / inizio 2025, il che significa che, nel migliore dei casi, le disposizioni di nazionali di attuazione non saranno applicabili prima di fine 2026 / inizi 2027, il percorso è ancora lungo, ma c’è speranza.