La cattiva conservazione dei cibi destinati ai clienti del ristorante può comportare gravi conseguenze per la salute, come nel caso dell’intossicazione alimentare.
Il ristoratore, in quanto datore di lavoro, ripone fiducia nel cuoco affinché questi curi la corretta gestione della cucina quale sua prestazione lavorativa.
Per questo motivo, secondo una recente pronuncia della Corte di Cassazione, è legittimo il licenziamento dello chef che abbia colposamente violato le norme in materia di igiene e sicurezza alimentare.
Il fatto
A seguito di un’ispezione igienico-sanitaria effettuata dal Nucleo antisofisticazioni e sanità del Comando Carabinieri per la tutela della salute all’interno del Ristorante X dove Tizio svolgeva la mansione di chef, venivano riscontrate alcune irregolarità.
I militari riscontravano il congelamento abusivo di circa 47 kg di alimenti che, privi di un’idonea copertura, risultavano accatastati l’uno all’altro e in promiscuità tra loro, parzialmente invasi da ghiaccio e con evidenti segni di bruciature da freddo; cibi detenuti ad una temperatura diversa da quella indicata nelle rispettive etichette; ma anche alcune buste sottovuoto contenenti alimenti scaduti.
Per questa ragione, Tizio riceveva una lettera con cui gli veniva intimato il licenziamento ai sensi dell’art. 192, comma 5, lett. e) del CCNL in ragione del riconosciuto ruolo di responsabilità da questi svolto all’interno della struttura e la “conseguente particolare fiducia che il datore di lavoro riponeva nel corretto adempimento della prestazione lavorativa, nonché la circostanza che il comportamento contestato integrava la violazione di regole cautelari specifiche, sia perché previste nel manuale HACCP , sia perché sanzionate penalmente dal legislatore”.
Sia in primo che in secondo grado veniva rigettata l‘impugnativa del licenziamento per giusta causa proposta dal cuoco il quale però sceglieva di proporre ricorso per cassazione.
La decisione
La Corte di Cassazione, sezione Lavoro, ordinanza 13 febbraio 2024, n. 3927 ha confermato quanto già stabilito nel secondo grado di giudizio da parte della Corte d’Appello e secondo cui la sanzione del licenziamento irrogata è effettivamente proporzionale alla gravità dei fatti, dato il ruolo di responsabilità assunto dal cuoco all’interno della struttura aziendale e del particolare rapporto di fiducia che il ristoratore, suo datore di lavoro, riponeva nel corretto adempimento della prestazione lavorativa.
I Giudici provvedono a rammentare la ragione posta alla base del licenziamento per giusta causa e inteso come quella clausola generale “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.
La valutazione della proporzionalità (o adeguatezza) della sanzione emessa rispetto all’illecito commesso è rimessa nelle mani del giudice. Solo questi è chiamato a vagliare la gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso.
La gravità e la pericolosità della condotta colposamente compiuta dal cuoco si concretizza nella violazione di regole cautelari, di igiene e sicurezza, poste a tutela di un bene giuridico primario, quale la salute pubblica e che costituiscono “nell’architettura della sentenza impugnata, la ragione che preclude di sussumere l’addebito nelle previsioni di illecito disciplinare cui il contratto collettivo collega una sanzione conservativa”.
Proprio il rilievo penale che assume la condotta sanzionata con il licenziamento è una circostanza idonea a escludere di poter valutare l’inadempimento come lieve oppure tenue, dal momento che la violazione delle norme in tema di igiene e sicurezza alimentare è idonea di mettere a repentaglio la salute dei clienti.