La Corte di Cassazione, Sezione lavoro, con ordinanza dell’11 gennaio 2024, n. 1124 ha stabilito che deve essere risarcita per il danno biologico e morale subito una dipendente, la quale abbia subito condotte vessatorie da parte della sua superiore.
La lavoratrice, in particolare, era stata costretta a effettuare una dieta ipoglicemica per entrare in una divisa di taglia media o small e aveva inoltre subito plurime condotte denigratorie.
I fatti di causa
La dipendente Mevia affermava di aver svolto ore di lavoro straordinario che non le erano state retribuite e di aver subito una condotta vessatoria da una sua superiore gerarchica.
Di conseguenza, chiedeva al Tribunale di Mantova la condanna della datrice di lavoro al pagamento della somma di Euro 1.640,08 a titolo di differenze retributive per lavoro straordinario, nonché la condanna della società al risarcimento dei danni.
Il Tribunale adito accoglieva le due domande e in particolare liquidava il danno da mobbing nella somma di Euro 12.500,00.
La Corte d'Appello di Brescia rigettava l'appello proposto dalla società relativamente alla condanna risarcitoria.
La Corte territoriale, in particolare, sottolineava la gravità della vicenda vessatoria di cui era stata vittima la lavoratrice, la quale era stata inserita nell'ufficio amministrativo, come impiegata,e aveva iniziato a lavorare sotto il potere direttivo di Caia.
Nel corso del rapporto di lavoro, Mevia e le altre lavoratrici furono vittime di condotte vessatorie e lesive della loro dignità personale e professionale, che inizialmente erano consistite in invadenze inaccettabili da parte del superiore gerarchico nella propria sfera intima e personale, poi proseguite in maniera sempre più pressante, fino a culminare in vere e proprie vessazioni con offese, denigrazioni e molestie.
Veniva inoltre accertato che la superiore aveva consegnato a Mevia un clistere con prescrizione di utilizzarlo e insieme veniva imposta una dieta ipoglicemica, affinché Mevia potesse dimagrire e indossare così una divisa di taglia media o small.
La superiore gerarchica, inoltre, aveva imposto esami ematici e chiesto a Mevia la password per entrare nel database del laboratorio e prendere visione dei referti.
La superiore, inoltre, aveva costretto Mevia a sottoporsi a sedute di massaggi sul luogo di lavoro, massaggi, inoltre, che venivano praticati dalla stessa Caia.
La lavoratrice era stata inoltre più volte denigrata in pubblico e rimproverata in malo modo con forti urla e offese.
Tali fatti, ampiamente dimostrati, per la Corte territoriale, se non hanno integrato il mobbing, certamente hanno leso la dignità della dipendente e suoi fondamentali diritti come quello alla riservatezza e alla privacy, quest'ultima intesa come tutela della propria sfera personale e intima, tutti in violazione dell'art. 2087 c.c.
Dalla relazione sanitaria si evinceva un vero e proprio danno biologico a danno di Mevia, consistente in un grave stato depressivo.
Veniva altresì riconosciuto un danno morale, rappresentato dalla sofferenza interiore.
Per la Corte territoriale il danno da sofferenza interiore andava quantificato in importo pari al 100% della retribuzione media percepita (di Euro 1.500,00), moltiplicata per sei mesi per un totale di Euro 9.000,00.
Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso in Cassazione.
La sentenza della Corte di cassazione
Per la Corte di cassazione, i giudici d'appello hanno lungamente e correttamente motivato in fatto circa la palese violazione dell'obbligo di sicurezza ed hanno citato più volte l'art. 2087 c.c. come norma applicata a condotte (ritenute se non di mobbing, quantomeno di straining) della datrice di lavoro.
Con il quarto motivo, in particolare, la ricorrente aveva inoltre lamentato l'omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, ossia che quelli posti in essere da Caia sarebbero stati semplici consigli per la salute delle lavoratrici.
Per la Cassazione tale motivo è inammissibile.
Per effetto della nuova formulazione dell'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., come introdotta dal d.l. n. 83/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134/2012, ha specificato la Cassazione, “oggetto del vizio di cui alla citata norma è oggi esclusivamente l'omesso esame circa un "fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti".
Costituisce "fatto", ha specificato la Cassazione:
“1) un vero e proprio "fatto", in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un "fatto" costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (cfr. Cass. n. 16655/2011; Cass. n. 7983/2014; Cass. n. 17761/2016; Cass. n. 29883/2017);
2) un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico – naturalistico (cfr. Cass. n. 21152/2014; Cass. sez. un. n. 5745/2015);
3) un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto (cfr. Cass. n. 5133/2014); 4) una vicenda la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali (cfr. Cass. sez. un. n. 8053/2014)”.
Non costituiscono, viceversa, "fatti", secondo la Corte, tra gli altri:
“1) le argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass. sez. un. n. 16303/2018, in motivazione; Cass. n. 14802/2017; Cass. n. 21152/2015);
2) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. sez. un. n. 8053/2014)”.
La Corte ha dunque rigettato il ricorso e condannato la ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che ha liquidato in Euro 5.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge.