Lasciare il dipendente con le mani in mano, non per forza con un intento mobizzante ma anche solo per una cattiva organizzazione interna, è una situazione capace di ingenerare uno stress pisco-emotivo nel lavoratore.
Lo stress lavoro-correlato per l'inattività imposta dal datore di lavoro al dipendete può cagionare disturbi sociali, psicologici e anche fisici meritevoli di risarcimento.
Sul punto si è recentemente pronunciata la Cassazione.
Il fatto
Tizio, dipendente del Comune con qualifica di istruttore amministrativo, decideva di adire il Tribunale di primo grado per ottenere la condanna dell'amministrazione per la forzata inattività cui era stata costretta.
Il Tribunale rilevava, infatti, la privazione delle mansioni avessero determinato un "disturbo dell'adattamento con ansia e umore depresso misti", con un danno biologico temporaneo del 15% dal tempo della sua insorgenza, provvedendo a condannare il Comune.
La sentenza veniva riformata dalla Corte d'Appello che rigettava la domanda risarcitoria originaria, ritenendo non sussistesse alcuna correlazione cronologica tra la sintomatologia presentata e gli episodi denunciati.
Avverso tale decisione, Tizio proponeva ricorso per cassazione.
La decisione
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza del 6 agosto 2024, n. 22161 si è pronunciata in tema di forzata inattività e risarcimento dei danni da stress lavoro-correlato.
Secondo gli Ermellini, da parte dell'Amministrazione vi è stato un comportamento violativo dell'art. 2087 c.c., secondo cui il datore di lavoro sia tenuto sia al rispetto delle norme di sicurezza prescritte esplicitamente, ma anche l'obbligo generale di prevedere ogni possibile conseguenza negativa della mancanza di equilibrio tra organizzazione di lavoro e personale impiegato.
"Il comportamento del datore di lavoro che lasci in condizione di forzata inattività il dipendente, pur se non caratterizzato da alcuno specifico intento persecutorio e anche in mancanza di conseguenze di retribuzione, può determinare un pregiudizio significativo sulla sua vita professionale e personale, per questo motivo suscettibile di risarcimento e di valutazione in via equitativa", sostiene la Cassazione.