Con la sentenza del 25 luglio 2023, n. 22375, la Corte di cassazione, prima sezione civile, ha affrontato per la prima volta la questione relativa alla validità ed efficacia della “Russian roulette clause”.
La “Russian roulette clause” è la clausola con cui viene stabilito che, qualora si verifichi una situazione di stallo societario (deadlock) viene attribuita a ogni socio la facoltà di rivolgere all’altro un’offerta di acquisto della sua partecipazione a un determinato prezzo.
L’oblato ha la facoltà di accettare e, quindi, di vendere la propria partecipazione o, al contrario, acquistare per lo stesso prezzo la partecipazione del proponente.
Nel caso di specie questa clausola era inserita nei patti parasociali di una società nella quale erano presenti due soci con identica partecipazione.
Per la Corte di cassazione tale clausola è valida ed espressione dell’interesse dei soci di evitare situazioni di stallo e la liquidazione della società, condizioni che potrebbero derivare dal paritetico esercizio del diritto di voto.
Per la Cassazione, inoltre, l’inserimento nei patti parasociali della clausola “Russian roulette”, non implica la necessità di applicare il principio di equa valorizzazione della partecipazione sociale, previsto dagli artt. 2437-ter e 2437-sexies c.c., anche considerando il fatto che il destinatario dell’offerta non si trova in una condizione di soggezione pura rispetto all’altrui esercizio del diritto potestativo, ma può esercitare un diritto di scelta.
Il Fatto
La Corte di appello di Roma aveva confermato la sentenza del Tribunale che aveva dichiarato la validità delle clausole antistallo contenute in un patto parasociale e aveva respinto la connessa domanda di risarcimento del danno per la violazione dei doveri di correttezza e buona fede.
La Corte territoriale aveva ritenuto che le clausole antistallo contenute nel patto parasociale non fossero unilaterali, poiché conferivano a entrambe le parti la facoltà di farne uso.
Per la Corte la previsione oggetto delle clausole era valida, poiché puntualmente circostanziata rispetto a precise condizioni, doveva dunque essere considerata meritevole di tutela.
Avverso questa sentenza veniva proposto ricorso in Cassazione.
La sentenza della Corte di cassazione
La Cassazione ha in primo luogo ricordato come la tematica relativa alla validità ed efficacia delle clausole dirette a superare fasi di stallo societario che rischiano di determinare la liquidazione della società emerge con particolare riferimento a clausole negoziali e contratti di natura atipica nell’ambito dell’esperienza nordamericana e poi si diffonde nei paesi di civil law, fino a subentrare nel nostro ordinamento.
L’utilizzo di strumenti di tal genere, ha sottolineato la Cassazione, “se da un lato consente di evitare un possibile isolamento giuridico e la conseguente perdita di competitività dell’ordinamento interno, dall’altro sollevano evidenti problemi di coordinamento con la diversa struttura giuridica dell’ordinamento di destinazione”.
Il tema è di particolare attualità nel settore della circolazione delle partecipazioni societarie (sale and purchase agreement) o degli accordi societari partecipativi (joint venture agreement). Il riferimento va in particolare a quelle clausole di “buy-sell provision”, che, secondo quanto ha ricordato la Corte, “sono rivolte a evitare o superare, senza giungere alla liquidazione della società, possibili situazioni di impasse che rischiano di bloccare l’intrapresa economica, o comunque creare una situazione di immobilismo che potrebbe portare persino allo scioglimento della società, che è tanto più probabile nei casi in cui il capitale sociale sia ripartito fra due soci con partecipazione paritaria o nel perseguimento di singoli affari attraverso società veicolo o joint venture paritarie”.
La paralisi decisionale e/o gestoria, come ha sottolineato la Cassazione, può essere intesa sotto due diverse accezioni: “a) stalemate, quando in relazione a una disputa decisionale, la possibilità di stallo è per così dire “creata” dalle stesse parti, che a esempio hanno adottato particolari regole convenzionali che in talune condizioni possono portare all’inazione (si pensi ad un potere di veto convenzionale rispetto a determinati affari o decisioni o alla necessità di unanimità per talune determinazioni); b) deadlock, quando la situazione di blocco è destinata a realizzarsi in relazione a una situazione di fatto, che può dipendere dalla stessa concentrazione paritaria delle partecipazioni in capo a due diversi enti societari”.
In queste ipotesi i soci possono avere interesse a introdurre nello statuto oppure sottoscrivendo patti parasociali “appositi meccanismi di soluzione delle possibili condizioni di stallo fra i quali rientra anche la pattuizione di una russian roulette clause, a volte in letteratura indicata come texas shoot-out clause (tradotta con l’espressione immaginifica clausola del cow boy)”.
Sulla base della clausola russian roulette, nell’ipotesi in cui si verifichi una situazione di deadlock non altrimenti risolvibile, a uno o entrambi dei soci paciscenti è conferita la facoltà di rivolgere all’altro socio un’offerta di acquisto della propria partecipazione, al prezzo che si è disposti a pagare per l’acquisto della stessa.
Il socio destinatario dell’offerta può accettarla e quindi vendere la propria partecipazione al prezzo indicato dalla controparte oppure “ribaltare” la situazione e comprare la partecipazione del socio offerente, per il prezzo che quest’ultimo aveva indicato.
Ha chiarito la Cassazione: “Quando la possibilità di “azionare” la clausola è assegnata ad uno solo dei soci si parla di clausola asimmetrica, mentre nel caso in cui tale facoltà spetti a entrambi i soci, la clausola è detta simmetrica”.
La Corte ha poi valutato l’ipotesi dell’inserimento della clausola in esame nei patti parasociali.
Quanto all’esperienza legata all’utilizzo di tale clausole, la Cassazione ha poi riportato massime e risoluzioni dei Consigli notarili, come ad esempio la massima n. 181 del 9 luglio 2019, adottata dal Consiglio Notarile di Milano, secondo la quale, “La legittimità della c.d. clausola della «roulette russa» o del «cowboy», che dir si voglia, non pone in sé e per sé particolari dubbi. Essa si colloca nel novero, ormai comunemente ritenuto ammissibile, di clausole statutarie che impongono ai soci, al verificarsi di determinate circostanze, diritti e obblighi di trasferire le proprie partecipazioni sociali ad altri soci, alla società stessa o addirittura a terzi. Né è a dirsi che essa possa ragionevolmente porsi in violazione del divieto del patto leonino ai sensi dell’art. 2265 c.c., in quanto la sua concreta modalità di funzionamento non pare atta, in alcun modo, a realizzare il risultato che tale norma intende impedire (ossia l’esclusione di uno o più soci da ogni partecipazione agli utili o alle perdite)”.
La Cassazione è passata poi ad il profilo relativo al piano civilistico. In particolare, la Corte ha valutato se la pattuizione di roulette clause potesse porsi in contrasto con le disposizioni dell’art. 1355 cod. civ. (in tema di condizione meramente potestativa) e dell’art. 1349 cod. civ. (sulla determinazione/determinabilità dell’oggetto contrattuale).
La Corte sul punto ha chiarito che: “Ora, nel caso della russian roulette clause, sia pure con motivazioni non sempre identiche, la dottrina appare chiaramente rivolta a ritenere che non operi alcuna condizione meramente potestativa. In particolare, sarebbe proprio la struttura con cui la clausola opera a rappresentare una barriera intrinseca al dispiegarsi del mero arbitrio della parte. Il soggetto che, infatti, dichiara di far ricorso al patto antistallo, indicando il prezzo cui è disposto ad acquistare le partecipazioni dell’altro socio, non sa, a ben vedere, se all’esito di tale “prima mossa” risulterà acquirente o venditore delle partecipazioni sociali”. In altre parole, “è l’oblato che può decidere quale posizione societaria assumere all’esito del meccanismo antistallo, in quanto se il prezzo dichiarato fosse minore del valore di mercato della partecipazione, allora potrebbe guadagnare acquistando con uno “sconto” l’altrui partecipazione, mentre nell’ipotesi inversa, in cui il primo offerente indicasse un sovrapprezzo, potrebbe comunque lucrare vendendo vantaggiosamente la propria partecipazione”.
Le stesse ragioni vanno invocate in riferimento ai profili di determinazione (o determinabilità) dell’oggetto. Ha precisato la Corte che: “In questo senso, v’è anche chi individua proprio nel testo dell’art. 1349 cod. civ. un ulteriore indice di validità della clausola, da intendersi come meccanismo che lascia alla parte, ma non al suo mero arbitrio, la determinazione del valore e riserva al destinatario di tale dichiarazione se o come profittare della stessa. Si è, perciò, ritenuto che tale meccanismo di funzionamento, che deve fondarsi su un evento (lo stallo) indicato in contratto e non dovuto al mero comportamento della parte che invoca la russian roulette, determini, in realtà, il sorgere di un’obbligazione alternativa in capo all’oblato che, ex art. 1285 cod. civ., può liberarsi vendendo la propria partecipazione o acquistando quella del dichiarante. Mentre altra diversa, e forse preferibile, ricostruzione, riconduce tale maccanismo al riconoscimento negoziale di due opzioni put/call statiche (cioè senza possibilità di rilanci), ugualmente esercitabili da parte del socio oblato”.
Per ciò che concerne un possibile punto di frizione con il divieto di “patto leonino”, la Corte ha chiarito che “la giurisprudenza di questa Corte ritiene che non rientrino nel divieto in parola quelle clausole che stabiliscono una partecipazione agli utili o alle perdite non proporzionale al valore della propria quota”.
Il testo integrale della sentenza
FATTI DI CAUSA 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza del locale Tribunale che aveva dichiarato la validità delle clausole antistallo contenute nel patto parasociale stipulato *** tra *** , partecipata da *** e ***, e ***, respingendo la connessa domanda di risarcimento del danno per la violazione dei doveri di correttezza e buona fede nell’esercizio delle prerogative da tali clausole derivanti o per l’abusiva attività di direzione e coordinamento relativamente alla società partecipata *** 2. La Corte territoriale ha ritenuto: a) che le clausole antistallo contenute nel patto parasociale non erano affatto unilaterali, giacché facoltizzavano entrambe le parti a farne uso; b) che sfornita di alcuna verosimiglianza era la tesi secondo cui *** sarebbe stata l’unica a poter fare uso delle clausole, quale socio “forte” che sin dall’inizio sapeva della condizione di debolezza di ***; c) che la previsione oggetto delle clausole era valida, siccome puntualmente circostanziata rispetto a precise condizioni, sicché doveva ritenersi meritevole di tutela; d) che andava esclusa la nullità della clausola per vizio dell’oggetto, atteso che il prezzo di rivendita era identificato in base a condizioni oggettive e non già rimesso all’arbitrio di una delle parti, potendo del resto ***, quale socio al 50% della società veicolo ***, ben conoscere la situazione finanziaria della partecipata ai fini della valutazione delle congruità del prezzo fissato da ***; e) ha escluso che la clausola fosse nulla per assenza di un meccanismo di equa valorizzazione delle partecipazioni, perché la clausola antistallo non si presta a tale tipo di rischio, essendo espressione della libertà negoziale dei soci aderenti; f) ha escluso che la clausola in questione ricadesse nel divieto del patto leonino; g) ha escluso che la clausola integrasse la violazione dell’art. 2341-bis cod. civ.; h) ha escluso che ***, nell’azionare la clausola, avesse abusato del proprio diritto, circostanza valutata come non provata, dovendo ascriversi all’immobilismo della partecipata *** la ragione del mancato interesse di *** a permanere nella compagine sociale e non già al comportamento asseritamente scorretto di quest’ultima, nei vari aspetti puntualmente esaminati in fatto ed esclusi nella loro esistenza o rilevanza; i) ha dichiarato inammissibile per genericità il motivo di censura relativo all’attività di direzione e coordinamento svolta da *** in ***; l) ha dichiarato inammissibile la richiesta di c.t.u. formulata da ***. 3. Avverso detta sentenza ***, *** e *** hanno proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. 4. *** ha resistito con controricorso. 5. Con ordinanza interlocutoria n. 13545, depositata in data 29 aprile 2022, resa in esito all’udienza del 3 febbraio 2022, questa Corte ha disposto il rinvio della causa a nuovo ruolo, richiedendo all’Ufficio del Massimario e del Ruolo presso un approfondimento tematico sulla russian roulette clause – con riferimento anche all’esperienza giuridica statunitense e canadese, oggetto di diffusi riferimenti delle difese delle parti – del quale il Collegio si è avvalso nell’inquadramento dei temi di diritto rilevanti ai fini della presente decisione. 6. All’esito dell’acquisizione di quanto richiesto, la causa veniva fissata alla pubblica udienza odierna.
RAGIONI DELLA DECISIONE
La fattispecie in esame. Appare preliminarmente necessario riassumere i fatti di causa. La sentenza impugnata ha confermato la sentenza di primo grado n. 19708/2017 del Tribunale di Roma che, decidendo le cause riunite rispettivamente proposte da *** e *** nonché da *** nei confronti di ***, aveva: – affermato l’inefficacia e quindi il valore non preclusivo di una scrittura in data ***, conclusa fra *** (d’ora innanzi ***) e ***, avente il preteso valore di transazione inter partes; – dichiarato la validità della clausola antistallo del tipo russian roulette contenuta nei patti parasociali stipulati inter partes in data 27/06/2006 (e in particolare delle clausole 6.2. e 7, oggetto di contestazione da parte dell’odierna ricorrente), ritenendo la stessa idonea a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, in quanto tesa ad evitare uno stallo pregiudizievole salvaguardando, attraverso la ricollocazione delle partecipazioni sociali, il progetto imprenditoriale evitando, altresì, i costi ed i tempi lunghi di una complessa procedura di liquidazione societaria; – ritenuto che la predetta clausola non rimetta al mero arbitrio di una delle parti la determinazione dell’oggetto, in quanto alla determinazione unilaterale del prezzo della partecipazione (nella specie esercitata da ***), si accompagna il rischio per il proponente di perdere, per quel medesimo prezzo, la propria partecipazione, trovandosi pertanto l’oblato nella possibilità, da un canto, di profittare di una eventuale sottovalutazione delle proponente al fine di acquistare allo stesso prezzo la partecipazione di quest’ultima oppure, nel caso di sopravvalutazione, di profittare della stessa, lucrando il surplus attraverso la cessione delle proprie azioni; – ritenuto non fondata neppure la doglianza circa il preteso abuso esercitato da *** attraverso le modalità con le quali aveva fatto ricorso alla russian roulette clause, ritenendo indimostrato che l’immobilismo della società partecipata *** fosse riconducibile all’ingerenza della medesima ***, nonché non provato il carattere asseritamente iniquo della determinazione del valore della partecipazione, peraltro genericamente contestato, conseguentemente respingendo anche le domande risarcitorie per violazione del dovere di buona fede ed abuso nell’attività di direzione e controllo da parte della stessa.
La Corte di appello ha, quindi, respinto il gravame proposto da ***, *** e ***, ricordando come *** fosse una società-veicolo proprietaria di vasti terreni nella zona di ***, originariamente partecipata in modo paritetico da *** e ***; la prima aveva esercitato la prelazione su una proposta d’acquisto della quota della *** acquistando la partecipazione di quest’ultima per l’importo di Euro 48.117.000 e, dopo trattativa, l’aveva alienata in data 27/06/2006 in favore della neocostituita *** (da parte dei soci ***, *** e ***) per il prezzo di euro 63.250.000, da pagarsi con dilazione entro il 31/12/2009 a fronte del rilascio di garanzia a prima richiesta; contestualmente erano stati sottoscritti patti parasociali di tenore identico a quelli in precedenza valevoli fra *** e ***, per quanto qui interessa diretti a risolvere il rapporto sociale, con l’uscita di uno dei due partner e la conseguente assunzione della partecipazione totalitaria da parte dell’altro, in ipotesi di stallo o di mancato rinnovo dei medesimi patti parasociali alla scadenza del quinquennio. La Corte di appello ha quindi valorizzato il carattere simmetrico della clausola, rilevando come la clausola concedesse termine di 180 giorni a *** per attivare la stessa dall’evento di stallo e come l’inutile decorso di tale termine consentisse a *** di procedere a sua volta in modo analogo, escludendo inoltre che la clausola ricadesse nel pure invocato divieto di patto leonino o che violasse l’art. 2341-bis cod. civ.; inoltre, la decisione impugnata ha escluso che, in concreto, fosse stato violato un principio di equa valorizzazione della partecipazione, considerato che, anche ove si volesse ammetterne l’esistenza, il parametro di riferimento avrebbe dovuto essere costituito dal valore di liquidazione della partecipazione, assumendo inoltre carattere indimostrato una pretesa condotta di abuso nell’esercizio delle prerogative derivanti da dette clausole e del tutto generiche le censure in ordine al c.d. abuso di direzione e coordinamento da parte di ***. È altrettanto necessario, prima di esaminare il merito del ricorso, premettere considerazioni inerenti all’inquadramento delle clausole antistallo in generale e, più specificamente, di quella del tipo russian roulette, contenuta nel patto parasociale oggetto di lite. b. Inquadramento della clausola e “stallo” societario. La tematica relativa alla validità ed efficacia delle clausole volte a superare situazioni di stallo societario, che rischiano di compromettere l’impresa economica e determinare la liquidazione della società per impossibilità del raggiungimento del suo scopo, emerge, come spesso avviene con riferimento a clausole negoziali e contratti di natura atipica, nell’esperienza nordamericana, da lì diffondendosi nei paesi di civil law, fino ad entrare nella prassi applicativa del nostro ordinamento. Il tema, sotto un profilo più generale, non è nuovo ed è stato indagato dalla più autorevole dottrina sotto l’espressione “contratto alieno”, cioè quel contratto pensato e scritto sulla base di un modello diverso dal diritto italiano, derivante dalla common law anglosassone, contenente clausole redatte secondo le drafting techniques anglo-sassoni, per le quali occorre indagare la loro compatibilità con i principi fondanti del nostro ordinamento.
Tale fenomeno può definirsi espressione della forza espansiva nel nostro ordinamento di modelli giuridici sperimentati nella prassi degli affari internazionali e utilizzati da primarie società multinazionali, che finiscono per indurre paesi di diversa civiltà giuridica ad assorbirne il contenuto nel proprio ordinamento, che, se da un lato consente di evitare un possibile isolamento giuridico e la conseguente perdita di competitività dell’ordinamento interno, dall’altro sollevano evidenti problemi di coordinamento con la diversa struttura giuridica dell’ordinamento di destinazione. Se tale problematica è stata tradizionalmente affrontata rispetto a taluni contratti atipici, come il contratto autonomo di garanzia (si pensi al settore degli appalti internazionali ed alle figure dell’advance payment bond o del performance bond), per talune figure negoziali si è addirittura assistito alla loro tipizzazione da parte del legislatore nazionale, come nei casi del factoring (su cui la l. n. 52 del 21 febbraio 1991) o più recentemente del leasing (oggetto dell’intervento di cui all’art. 1, comma 136 e ss. della l. n. 124 del 4 agosto 2017). Ma è nel settore della circolazione delle partecipazioni societarie (sale and purchase agreement) o degli accordi societari partecipativi (joint venture agreement) che il tema si pone nella sua attualità. Vengono in rilievo particolare quelle clausole di buy-sell provision, che sono rivolte a evitare o superare, senza giungere alla liquidazione della società, possibili situazioni di impasse che rischiano di bloccare l’intrapresa economica, o comunque creare una situazione di immobilismo che potrebbe portare persino allo scioglimento della società, che è tanto più probabile nei casi in cui il capitale sociale sia ripartito fra due soci con partecipazione paritaria o nel perseguimento di singoli affari attraverso società veicolo o joint venture paritarie.
Si parla per la precisione di paralisi decisionale e/o gestoria sotto due diverse accezioni: a) stalemate, quando in relazione a una disputa decisionale, la possibilità di stallo è per così dire “creata” dalle stesse parti, che a esempio hanno adottato particolari regole convenzionali che in talune condizioni possono portare all’inazione (si pensi ad un potere di veto convenzionale rispetto a determinati affari o decisioni o alla necessità di unanimità per talune determinazioni); b) deadlock, quando la situazione di blocco è destinata a realizzarsi in relazione a una situazione di fatto, che può dipendere dalla stessa concentrazione paritaria delle partecipazioni in capo a due diversi enti societari. Di fronte a tali evenienze, può essere di interesse dei soci introdurre, per via statutaria, o più semplicemente attraverso la sottoscrizione di patti parasociali, appositi meccanismi di soluzione delle possibili condizioni di stallo fra i quali rientra anche la pattuizione di una russian roulette clause, a volte in letteratura indicata come texas shoot-out clause (tradotta con l’espressione immaginifica clausola del cow boy) che trova un’elaborazione cospicua in ambito dottrinale, anche comparatistico, e nella stessa prassi degli ordini professionali notarili. Nella sua schematizzazione più semplice, la clausola russian roulette prevede che, al verificarsi di una situazione di deadlock non altrimenti risolvibile, a uno o entrambi dei soci paciscenti è attribuita la facoltà di rivolgere all’altro socio un’offerta di acquisto della propria partecipazione, contenente il prezzo che si è disposti a pagare per l’acquisto della stessa. Il socio destinatario dell’offerta non è, tuttavia, in una posizione di mera soggezione di fronte a tale iniziativa, ma risulta titolare di un’alternativa che può liberamente percorrere: a) può, infatti, accettare l’offerta, e quindi vendere la propria partecipazione al prezzo indicato dalla controparte; b) può, invece, “ribaltare” completamente l’iniziativa e farsi acquirente della partecipazione del socio offerente, per il prezzo che quest’ultimo aveva indicato. Quando la possibilità di “azionare” la clausola è assegnata ad uno solo dei soci si parla di clausola asimmetrica, mentre nel caso in cui tale facoltà spetti a entrambi i soci, la clausola è detta simmetrica. Va notato che, in quest’ultima ipotesi, molto spesso la clausola delinea una vera e propria procedimentalizzazione del meccanismo di formulazione dell’offerta, con ciò intendendosi l’individuazione di un meccanismo di priorità (ad es. cronologica) volta a stabilire quale dei due soci offerenti debba prevalere sull’altro e a evitare, quindi, che lo stesso ricorso alla clausola possa generare una situazione di stallo che, invece, la pattuizione intende risolvere. Un sottotipo di clausola simmetrica è quella che attribuisce ad uno dei partner il diritto di ricorrere alla clausola al verificarsi del blocco (c.d. trigger event) entro un certo termine, decorso il quale l’iniziativa passa all’altro socio. Elemento caratteristico della russian roulette clause è la fissità del prezzo dell’offerta, mentre la variante Texas shoot out clause consente rilanci. La clausola prevede nella prassi nordamericana, sia pure con minore diffusione, anche una variante per così dire “inversa” detta Sale shoot out nella quale, di fronte alla paralisi societaria, a un socio è attribuito il potere di “gettare la spugna”, cioè di indicare un prezzo al quale è disposto a vendere la propria partecipazione all’altro socio che, se non ritiene di accettare tale “proposta”, diviene a sua volta obbligato a cedere la propria partecipazione al medesimo prezzo, ma diminuito di una percentuale contrattualmente prestabilita. Questa clausola conosce, altresì, una variante in cui la determinazione del prezzo è affidata a un soggetto esterno alle parti in modo da individuare un “fair value per share”, mentre a uno dei soci si attribuisce il potere di acquistare la partecipazione dell’altro con un pre-agreed discount, oppure di vendere la propria partecipazione con il medesimo aumento percentuale (pre agreed premium). c. L’inserimento nei patti parasociali. La clausola russian roulette viene, di solito, inserita all’interno dei patti parasociali che vincolano due gruppi diversi di soci. È noto che con l’espressione patto parasociale si intende quell’accordo contrattuale che intercorre fra più soggetti (di norma due o più soci, ma anche tra soci e terzi), finalizzato a regolamentare il comportamento futuro che dovrà essere osservato durante la vita della società o, comunque, in occasione dell’esercizio di taluni diritti derivanti dalle partecipazioni detenute. Il patto parasociale trova, quindi, il proprio elemento qualificante nella distinzione rispetto al contratto di società e allo statuto della medesima, in quanto realizza una convenzione con cui i soci attuano un regolamento complementare a quello sancito nell’atto costitutivo e poi nello statuto della società, al fine di tutelare più proficuamente i propri interessi. La validità di queste pattuizioni può dirsi in linea di principio assodata ed emerge, in modo ormai diretto, anche dalla previsione normativa dell’art. 2341-bis c.c., introdotto dalla Riforma del diritto societario del 2003, che prevede che non possano avere una durata superiore a 5 anni – salvo rinnovo – quei patti che “al fine di stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società: a) hanno per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società per azioni o nelle società che le controllano; b) pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipazioni in società che le controllano; c) hanno per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su tali società”. Una previsione che implica il riconoscimento da parte del legislatore nazionale della meritevolezza e della tutelabilità dei patti parasociali, da ritenere dunque sempre validi, purché non si pongano in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento in materia societaria. Si vedano le considerazioni svolte da questa Corte, Sez. 1, sent. n. 36092 del 2021 in tema di patti di sindacato, Sez. 1, ord. n. 27227 del 2021, in tema di opzioni put e call, e Sez. 1, sent. n. 12956 del 2016 in tema di prelazione di acquisto di quote sociali, nel cui ambito rientrano le buy-sell previsions, fra le quali, per quanto qui rileva, proprio la clausola russian roulette. d. Cenni di diritto comparato: US case law and doctrine. Si è osservato come nel sistema statunitense le Corti considerino generalmente la clausola russian roulette come una forma di shootout clauses, giudicata “presumptively fair”, cioè valida in linea di principio, salvi evidenti ipotesi di abuso. La ragione di tale orientamento viene ricondotta all’argomentazione che ne diede il Giudice Easterbrook con riguardo alla decisione resa da United States Court of Appeals il 21 novembre 2002, di rigetto dell’appello secondo cui “the possibility that the person naming the price can be forced either to buy or sell keeps the first mover honest”. Altra spiegazione, più generalmente diffusa negli ambienti di common law, fa riferimento alla c.d. “cake-cutting rule”, espressa attraverso l’incisiva affermazione “I cut, you choose”, secondo la quale il processo di determinazione del prezzo unilaterale trova il suo riequilibrio fondamentale nella possibilità di scelta di cui gode il soggetto oblato, spettando allo stesso se vendere a quel prezzo le proprie partecipazioni (cioè la propria “fetta di torta”, nella metafora anglosassone) oppure per lo stesso prezzo acquistare quelle dell’altro socio che per primo ha fissato il prezzo. Questo insieme di check and balances, per cui chi attiva la clausola russian roulette decide il prezzo (e quindi taglia la fetta di torta nella dimensione voluta) lascia in realtà tutta la scelta se vendere o acquistare all’altro partner. Ciò che funge da meccanismo riequilibratore, inducendo – secondo l’id quod plerumque accidit – il soggetto che indica il prezzo a non sopravvalutare o sottovalutare la partecipazione, perché in entrambi i casi la controparte potrebbe approfittarne, con un surplus sul prezzo delle partecipazioni vendute nel primo caso o con un considerevole sconto nell’acquisto nell’altro. Del resto, si è ritenuto che questo tipo di clausola serva a fronteggiare adeguatamente il rischio di paralisi gestionale, in particolare quando riguardi joint venture o corporations nelle quali due soci sono titolari, per pari quota, dell’intero capitale sociale. La diffusione di questo tipo di clausola viene considerata nella letteratura nordamericana quasi di routine (virtually boilerplate clause) nel settore delle real estate joint ventures ed è stata oggetto di formulazione mediante un modello tipo elaborato dall’American Bar Association nel vigore del Delaware Limited Liability Company Act. Nelle note al modello tipo, l’associazione professionale invita il socio che invoca la buy-sell provision, quando si tratti di un soggetto professionale, a dover operare una disclosure all’altro socio in ordine a quelle informazioni materiali, riguardanti la Limited Liability Company ed il suo valore, che l’altro membro potrebbe non possedere. Il profilo della disclosure, ossia della effettiva simmetria informativa concessa all’oblato, sembra, in effetti, la preoccupazione maggiore, volta a reprimere eventuali abusi nell’utilizzo di una clausola che, come generalmente si rileva, è in linea di principio valida. Viene ricordato come esempio di stigmatizzazione dell’abuso il caso Blue Chip Emerald LLC v. Allied Partners Inc., del 26 novembre 2002, nel quale uno dei due partner di una società proprietaria di un edificio commerciale a New York aveva acquistato, attraverso il ricorso alla buy-sell provision, il 50% del capitale dell’altro socio e due settimane più tardi aveva proceduto alla vendita dell’immobile per un prezzo più alto del 250% rispetto a quello che aveva comunicato nel determinare il valore della partecipazione, azionando la russian roulette clause, ritenendo che l’assenza di informazioni circa il reale valore dell’immobile e le trattative già in corso per la sua vendita – rivelate dal brevissimo stacco temporale cui aveva seguito la vendita – avessero impedito al socio che aveva ceduto la partecipazione una “informed decision” (c.d. lack od choice). Altro caso di violazione della buona fede nell’utilizzo della clausola è emerso in un caso deciso da Corte d’Appello del Texas nel lontano 1976, nel caso Johnson v. Buck, 540 S.W.2d 393, 411 (Texas App. 1976), ove si è dato particolare rilievo alla situazione di difficoltà finanziaria in cui si trovava il socio che aveva ricevuto la proposta di vendita/acquisto della quota; deve, tuttavia, essere evidenziato come in tale fattispecie si era in presenza, più che di una russian roulette clause vera e propria, di una clausola di “diluizione” della partecipazione, posto che i soci erano obbligati – in ragione dell’avanzamento dei lavori di realizzazione di immobili – a versamenti finanziari, in mancanza dei quali era prevista la possibilità di acquisto di una parte proporzionale della partecipazione del partner inadempiente da parte degli altri soci, sì che il caso non riguarda – propriamente – una clausola volta a dirimere una paralisi gestoria, e quindi una shoot out clause in senso stretto. e. L’approccio nei paesi di Civil Law. La diffusione della clausola di russian roulette nei paesi anglosassoni ha comportato, secondo un meccanismo riguardante altri numerosi contratti o figure negoziali atipiche, un crescente interesse della prassi e degli operatori economici e giuridici dei paesi di c.d. civil law. Pur non essendo frequentissimi i casi giunti alle cronache giudiziarie, possono registrarsi talune prese di posizione di organi giudiziari dei principali Paesi europei. La Corte d’appello di Parigi ha affrontato questa clausola nel 2006 (CA Paris, 15 dicembre 2006), rigettando la richiesta di uno dei soci che mirava a far dichiarare l’invalidità del patto in quanto stipulato privatamente fra i soci e non inserito nello statuto della società. La Corte ha, infatti, ritenuto che la russian roulette clause non possa essere considerata una clausola sanzionatoria, ma si tratti di una procedura di uscita volontariamente contrattata fra le parti di cui deve affermarsi la perfetta validità. Anche la Corte d’appello di Vienna, nella decisione del 20 aprile 2009 (in GesRZ, 2009, 376), ha affermato la validità dell’inclusione di una “deadlock clause” nella regolamentazione statutaria di una società chiusa, compresa la possibilità di iscrizione della stessa nei registri commerciali delle imprese, in quanto, secondo la Corte, i meccanismi di “checks and balances” insiti nelle modalità operative della clausola Firmato fanno sì che la parte che ricorre alla clausola non possa avvantaggiarsi eccessivamente sulla parte che quella richiesta riceve, potendo quest’ultima scegliere il da farsi liberamente. In Germania, l’interpretazione dottrinale maggioritaria è improntata a riconoscere la validità della clausola in commento, ritenendo che la stessa non costituisca una limitazione diretta o indiretta di diritti inalienabili collegati all’exit societario; in particolare, non si realizzerebbe una violazione del § 723 BGB in tema di recesso convenzionale, poiché ciascun partner sarebbe libero di iniziare la shoot-out procedure, ma il soggetto che riceve la proposta di vendita potrebbe capovolgerla in suo favore per il medesimo prezzo e il socio superstite potrebbe a tal punto decidere se continuare l’operatività della società, ovvero liquidarla. Al tempo stesso, si è ritenuto che la clausola non determini una violazione dell’ordine pubblico, in quanto il meccanismo di determinazione del prezzo, pur unilaterale, in forza della possibilità di scelta concessa all’altro partner, consente in linea di principio di proteggere i partners e gli azionisti dal subire svantaggi irragionevoli, non violando perciò la previsione dell’ordine pubblico, di cui al § 138 BGB. Nella giurisprudenza si segnala che l’Alta Corte di Norimberga (OLG Nueremburg, 20/12/2013) ha affermato la validità di questo tipo di clausola, ritenendo che la stessa non possa considerarsi di per sé nulla in quanto essa (o la sua applicazione) non è irragionevolmente favorevole ad una delle parti, stante la possibilità di scelta che è concessa all’altra, sì che proprio questa possibilità di scelta non crea un vantaggio di per sé ingiusto alla prima delle parti che fa ricorso alla clausola. La Corte, peraltro, ha aggiunto che in singoli casi concreti occorrerà prestare particolare attenzione quando le parti siano fra di esse in una posizione di evidente disequilibrio finanziario, ovvero quando la situazione di paralisi sia, in realtà, insussistente e uno dei soci abusi della clausola per forzare l’altro a lasciare la società. f. L’interesse della prassi nazionale: massime e risoluzioni dei Consigli notarili. Anche l’ordinamento italiano ha prestato un crescente interesse alle clausole volte a superare situazioni di contrasto insanabile o paralisi gestoria nelle joint venture paritarie o nelle società chiuse con due soci titolari di partecipazioni paritarie. Vengono in rilievo, in particolare, le massime e le risoluzioni dei principali consigli notarili italiani, a cominciare dalla massima n. 181 del 9 luglio 2019, adottata dal Consiglio Notarile di Milano, secondo la quale, a guisa di premessa dell’intera motivazione, “La legittimità della c.d. clausola della «roulette russa» o del «cowboy», che dir si voglia, non pone in sé e per sé particolari dubbi. Essa si colloca nel novero, ormai comunemente ritenuto ammissibile, di clausole statutarie che impongono ai soci, al verificarsi di determinate circostanze, diritti e obblighi di trasferire le proprie partecipazioni sociali ad altri soci, alla società stessa o addirittura a terzi. Né è a dirsi che essa possa ragionevolmente porsi in violazione del divieto del patto leonino ai sensi dell’art. 2265 c.c., in quanto la sua concreta modalità di funzionamento non pare atta, in alcun modo, a realizzare il risultato che tale norma intende impedire (ossia l’esclusione di uno o più soci da ogni partecipazione agli utili o alle perdite)”. La massima opera, quindi, una distinzione fondamentale: da un lato, le clausole di contenuto parasociale, dove, in linea di principio, non si debbono porre dubbi neppure in ordine al meccanismo di individuazione del prezzo di vendita o acquisto della partecipazione dell’altro, in caso di stallo, in quanto “non sussistono limiti normativi espressi alla libertà negoziale delle parti di programmare le condizioni economiche di un contratto di scambio che vincola solo le parti stesse”. Dall’altro, invece, occorre considerare le clausole statutarie che sono in grado di vincolare tutti i soci, indipendentemente da un loro assenso iniziale, le quali devono trovare come limite quello dell’equa valorizzazione della partecipazione. In particolare, secondo la massima milanese, “il principio di equa valorizzazione delle azioni o quote in caso di exit “forzato”, rinvenibile sia nelle norme in tema di recesso legale (artt. 2437-ter e 2473 cod. civ.) sia in quelle di riscatto convenzionale (art. 2437-sexies cod. civ.) e di esclusione (art. 2473- bis cod. civ.)” dovrebbe trovare applicazione anche alle clausole statutarie che, come la russian roulette, configurano un exit forzato del socio, intravedendosi una analogia strutturale con le clausole di drag along e tag along, già oggetto di altra massima in tal senso, la n. 88. In particolare, la clausola di drag along prevede che, se il socio di maggioranza decide di vendere l’intero capitale sociale a un terzo a determinate condizioni, gravi sui soci di minoranza l’obbligo di vendere la loro quota al medesimo terzo ed alle stesse condizioni; in altri termini, il socio di maggioranza ha il diritto di “trascinare” nella sua cessione di quota anche i soci di minoranza, mentre il terzo ha il grosso vantaggio di poter acquistare l’intero capitale sociale; questo comporta, di regola, una maggiore remunerazione per i soci uscenti ed una migliore appetibilità delle loro quote, rispetto al caso in cui le stesse dovessero essere acquistate o vendute singolarmente. La clausola di tag along, invece, prevede che, al verificarsi di una vendita a determinate condizioni delle quote sociali da parte del socio di maggioranza a favore di un terzo, spetti ai soci di minoranza il diritto di vendere la loro quota al medesimo terzo e alle stesse condizioni; in altre parole, il socio di minoranza ha in questo caso il diritto di “accodarsi” alla cessione di quota fatta dal socio di maggioranza, mentre quest’ultimo, se intende vendere, deve procurare al socio di minoranza un’offerta d’acquisto a suo favore alle stesse condizioni da lui concordate con il terzo acquirente. Anche in questo caso è solitamente possibile “spuntare”, da parte del terzo che intende acquistare l’intero capitale sociale, un prezzo più conveniente rispetto al caso di vendita della sola singola quota, poiché il cessionario ottiene il pieno controllo della società, senza doverlo condividere con una minoranza che potrebbe risultare “ostile”. Differenza fondamentale fra tali due previsioni è data dalla posizione di obbligo del socio di minoranza nel caso di drag along (si parla infatti di socio “trascinato”) rispetto alla posizione di favore dello stesso socio nell’ipotesi di tag along, nella quale a fronte dell’obbligo del socio di maggioranza di ottenere dal terzo la disponibilità all’acquisto anche della quota di minoranza sta il diritto del socio di minoranza di poter rifiutare l’offerta. Pur essendo, come è evidente, molto diversa la funzione di queste clausole, il Consiglio notarile di Milano ha ritenuto che il possibile medesimo esito finale (in particolare per la clausola di trascinamento o drag along) possa comportare l’applicazione, anche alla clausola di russian roulette statutaria, del principio di equa valorizzazione. Vi è però da rimarcare un passaggio importante della stessa massima, ove si legge: “Dire che in tali circostanze occorrerebbe prendere a riferimento il valore che i soci otterrebbero in sede di liquidazione e non già quello relativo alla liquidazione del socio recedente, infatti, significa semplicemente affermare (giustamente) che l’applicazione del criterio legale di valorizzazione delle azioni deve tener conto della situazione in cui versa la società, ivi compreso lo stato di “stallo” e l’eventuale prospettiva di liquidazione che ne potrebbe conseguire. Il che non impedisce di applicare comunque i criteri di valutazione previsti dalla legge (o quelli previsti ad hoc dallo statuto, nei limiti di deroga dei criteri legali), ben potendosi ipotizzare, anche in fase di liquidazione, l’utilizzo di tutti i criteri previsti dall’art. 2437-ter, comma 2, c.c.”. In altri termini, di fronte ad una situazione di deadlock che rischia seriamente di determinare una causa di estinzione della società e la sua messa in liquidazione, la valorizzazione della partecipazione dovrà tener conto di tale evenienza e avvenire al valore di liquidazione, piuttosto che a quello di continuità aziendale, pur dovendosi considerare l’ipotesi, ove percorribile, della cessione in blocco dell’attività, oltre che quella della dissoluzione dell’azienda e vendita atomistica degli asset che la compongono. La massima milanese evidenzia nettamente che tale preoccupazione inerente all’equa valorizzazione non si applica al caso di clausola contenuta nei patti parasociali, ma solo a quelli di carattere statutario. Diversamente, invece, la massima n. 73/2020, adottata dal Consiglio notarile di Firenze, afferma tout court che “la clausola statutaria c.d. “roulette russa”, finalizzata a risolvere una situazione di stallo decisionale, è legittima indipendentemente dalla previsione di un meccanismo di predeterminazione del prezzo della partecipazione oggetto del trasferimento; in particolare, la validità della clausola non soggiace alla condizione che siano indicati criteri da seguire per la determinazione del prezzo e che quest’ultimo sia almeno pari al valore di liquidazione della partecipazione spettante al socio receduto ai sensi degli artt. 2437-ter e 2473 c.c.” . La massima fiorentina parte dall’affermazione che “si tratta di una previsione relativamente diffusa in società partecipate da soci – o da gruppi tra loro omogenei di soci – titolari di partecipazioni paritarie (c.d. “fifty-fifty company”) e normalmente contenuta all’interno di patti parasociali” per poi ritenere che, quanto a questi ultimi, la situazione di stallo che giustifica il ricorso alla russian roulette clause può essere “legittimamente collegata anche al mancato rinnovo del patto parasociale, non realizzandosi una violazione della regola che pone limiti di durata ai patti parasociali (art. 2341-bis c.c.), in quanto, per un verso, il mancato rinnovo sarebbe riconducibile a un’ipotesi di stallo, mentre, sotto altro versante, la doppia opzione tra l’acquisto e la vendita rimessa all’oblato varrebbe ad escludere una incidenza sulla libera formazione della volontà delle parti in ordine al rinnovo del patto”. La motivazione del principio notarile distingue casi diversi: a) clausola “simmetrica” o “pura”, la cui “funzione è … quella di superare tale situazione di stallo attraverso una riallocazione delle partecipazioni sociali all’interno della compagine sociale, rimettendo a ciascun socio il potere di offrire all’altro (o agli altri) l’acquisto della propria partecipazione, determinandone il prezzo e lasciando all’oblato (o agli oblati) l’opzione tra procedere all’acquisto delle azioni o alla vendita delle stesse, sempre al medesimo prezzo indicato dal primo offerente; b) clausola “asimmetrica” o “selettiva” in cui “l’attivazione della clausola può essere rimessa anche all’iniziativa di un singolo socio o di alcuni soci selettivamente individuati o ancora ai soci che, al momento del verificarsi dello stallo, risultino titolari di una determinata percentuale del capitale sociale … tale selezione può aver luogo, nelle S.p.A. e nelle s.r.l. PMI, mediante la creazione di una categoria di azioni o di quote che attribuiscano il relativo diritto al loro (o ai loro) titolari (ai sensi dell’art. 2348 c.c. e dell’art. 26, comma 2, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, come modificato dall’art. 57 del d.l. 24 aprile 2017, n. 50); in tutte le s.r.l., tramite il riconoscimento di un diritto particolare, ai sensi dell’art. 2468, comma 3, c.c.”; c) clausole intermedie, nelle quali si attribuisce il diritto di avviare la procedura e di determinare il prezzo a uno dei soci, riconoscendo analoga iniziativa all’altro socio (o agli altri soci) in caso di mancata attivazione da parte del primo entro un determinato arco temporale dal verificarsi dello stallo o, più frequentemente, dal momento nel quale quest’ultimo socio ha sollecitato l’altro ad esercitare il suo “diritto di prima offerta” (c.d. “right of first offer”). Prosegue la massima rimarcando il carattere strutturalmente equilibrato della clausola in quanto “dall’angolo prospettico del socio oblato l’effetto immediato dell’attivazione della clausola è rappresentato dal riconoscimento di un diritto di riscatto delle azioni o quote del primo offerente; mentre è il mancato esercizio di tale diritto a rendere, a sua volta, riscattabile la partecipazione dell’oblato. La clausola antistallo in esame ha dunque un duplice effetto: i) un primo per il socio offerente che, attivando la clausola, si sottopone al diritto di riscatto dell’altro socio; ii) un secondo per il socio oblato, che si verifica soltanto in caso di mancato riscatto della partecipazione dell’offerente, rovesciandosi la situazione ed esponendosi lo stesso oblato all’altrui diritto di riscatto”. Alla luce di queste premesse, la massima ritiene che la russian roulette clause presenti una netta differenza rispetto alle azioni (o quote) riscattabili, da un lato, e delle clausole drag along, dall’altro: istituti, questi ultimi, che non presentano una valenza propriamente organizzativa, non presupponendo situazioni di stallo da risolvere, non giustificandosi, pertanto, l’applicazione della regola dell’equa valorizzazione della partecipazione di cui agli artt. 2437-sexies e 2473-bis c.c. Inoltre, si afferma testualmente che “la subordinazione della legittimità della clausola alla previsione di soglie minime di prezzo finirebbe incongruamente per determinare un effetto dissuasivo rispetto all’attivazione del relativo meccanismo, lasciando così la società esposta al protrarsi dello stallo, e condannandola al probabile esito liquidatorio, tutte le volte che il prezzo indicato dai soci legittimati all’offerta – il socio più tempestivo nella russian roulette “simmetrica”, ovvero quello selettivamente indicato come titolare del diritto di prima offerta nella variante “asimmetrica” – sia inferiore al valore determinabile in base agli artt. 2437-ter e 2473 c.c.; e ciò nonostante tale valore faccia riferimento a un ente in continuità, senza dunque scontare il rischio di deprezzamento connesso alla prospettiva dello scioglimento, e senza considerare che il prezzo finanziariamente sostenibile dai soci (tanto dal primo offerente, quanto dall’oblato) potrebbe non essere pari al parametro normativo, soprattutto in un contesto di difficile accesso al mercato del credito”. Così da concludere per la validità anche della clausola statutaria di russian roulette non contenente un floor minimo di prezzo. g. Profili di validità della clausola: aspetti civilistici. Un primo profilo di indagine intorno alla validità o meno della clausola in esame passa necessariamente attraverso il piano civilistico, valutando se la pattuizione di roulette clause possa porsi in contrasto con le disposizioni dell’art. 1355 cod. civ. (in tema di condizione meramente potestativa) e dell’art. 1349 cod. civ. (sulla determinazione/determinabilità dell’oggetto contrattuale). Quanto alla prima disposizione, che come noto afferma che “è nulla l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un obbligo subordinata a una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell’alienante o, rispettivamente, da quella del debitore”, occorre ricordare, sia pure in sintesi, come la posizione della giurisprudenza di questa Corte sia improntata a un’interpretazione assai restrittiva del concetto di clausola “meramente potestativa” (e quindi invalida), rispetto a quella semplicemente “potestativa”. Sul punto Sez. 5, sent. n. 30143 del 2019, ha affermato che: «la condizione è "meramente potestativa" quando consiste in un fatto volontario il cui compimento o la cui omissione non dipende da seri o apprezzabili motivi, ma dal mero arbitrio della parte, svincolato da qualsiasi razionale valutazione di opportunità e convenienza, sì da manifestare l'assenza di una seria volontà della parte di ritenersi vincolata dal contratto, mentre si qualifica "potestativa" quando l'evento dedotto in condizione è collegato a valutazioni di interesse e di convenienza e si presenta come alternativa capace di soddisfare anche l'interesse proprio del contraente, soprattutto se la decisione è affidata al concorso di fattori estrinseci, idonei ad influire sulla determinazione della volontà, pur se la relativa valutazione è rimessa all'esclusivo apprezzamento dell'interessato.». Trattasi di decisione conforme a quella resa da Sez. 3, Sent. n. 18239 del 2014 secondo cui «la condizione è "meramente potestativa" quando consiste in un fatto volontario il cui compimento o la cui omissione non dipende da seri o apprezzabili motivi, ma dal mero arbitrio della parte, svincolato da qualsiasi razionale valutazione di opportunità e convenienza, sì da manifestare l'assenza di una seria volontà della parte di ritenersi vincolata dal contratto, mentre si qualifica "potestativa" quando l'evento dedotto in condizione è collegato a valutazioni di interesse e di convenienza e si presenta come alternativa capace di soddisfare anche l'interesse proprio del contraente, soprattutto se la decisione è affidata al concorso di fattori estrinseci, idonei ad influire sulla determinazione della volontà, pur se la relativa valutazione è rimessa all'esclusivo apprezzamento dell'interessato» (in precedenza, negli stessi termini, anche Sez. 2, Sent. n. 11774 del 2007). Si rammenta, altresì, Sez. L, sent. n. 17770 del 2016, secondo cui “in tema di contratto di agenzia, la clausola contrattuale che prevede la facoltà della società mandante di tenere l'agente vincolato al divieto di concorrenza nei suoi confronti ed il correlato obbligo della medesima società di corrispondere un corrispettivo in caso di esercizio di tale facoltà, non integra una condizione meramente potestativa, in quanto l'efficacia dell' obbligazione non dipende dalla volontà dello stesso debitore, ossia dell'agente sul quale grava l'obbligo di non-concorrenza, bensì da quella della parte creditrice, ovvero della casa mandante, sicché tale patto non rientra nella previsione di nullità di cui all'art. 1355 c.c., ma va qualificato come patto di opzione ex art. 1331 c.c.”. Di interesse anche Sez. 2, ord. n. 9879 del 2018, che giunge a ritenere del tutto ammissibile persino una condizione meramente potestativa, purché risolutiva e non sospensiva: “la costituzione di una servitù volontaria ben può essere subordinata a condizione risolutiva, che non è incompatibile con la costituzione di una servitù poiché non incide sul requisito della permanenza, connaturale al contenuto reale dell'asservimento tra due fondi, ma si risolve in un modo convenzionale di estinzione della servitù stessa. Tale condizione è valida anche se meramente potestativa, in quanto l'art. 1355 c.c. limita la nullità, nell'ambito delle condizioni meramente potestative, a quelle sospensive”. Da ultimo Sez. 2, sent. n. 11774 del 2007, che ricorda l’esistenza del termine “cum voluerit”, ex art. 1183 ult. co. c.c., da tenersi distinto anche in questo caso dalla condizione meramente potestativa: «la disciplina di cui all'art. 1183 cod. civ. è da ritenersi applicabile anche nell'ipotesi di apposizione del termine cosiddetto "cum voluerit", la cui determinazione è demandata alla volontà di una delle parti, e la distinzione tra detto termine e la condizione meramente potestativa costituisce questione che attiene all'interpretazione della volontà delle parti, in quanto il citato art. 1183 cod. civ. consente espressamente, senza differenziare tra volontà e mera volontà, che la fissazione del termine sia demandata ad un'autonoma statuizione di uno dei soggetti del rapporto obbligatorio». Ora, nel caso della russian roulette clause, sia pure con motivazioni non sempre identiche, la dottrina appare chiaramente rivolta a ritenere che non operi alcuna condizione meramente potestativa. In particolare, sarebbe proprio la struttura con cui la clausola opera a rappresentare una barriera intrinseca al dispiegarsi del mero arbitrio della parte. Il soggetto che, infatti, dichiara di far ricorso al patto antistallo, indicando il prezzo cui è disposto ad acquistare le partecipazioni dell’altro socio, non sa, a ben vedere, se all’esito di tale “prima mossa” risulterà acquirente o venditore delle partecipazioni sociali. È, piuttosto, la parte oblata ad avere il diritto di scegliere se vendere la propria partecipazione al prezzo dichiarato dall’altro partner oppure se, per il medesimo prezzo, acquistare la partecipazione dell’altro. In altri termini, è l’oblato che può decidere quale posizione societaria assumere all’esito del meccanismo antistallo, in quanto se il prezzo dichiarato fosse minore del valore di mercato della partecipazione, allora potrebbe guadagnare acquistando con uno “sconto” l’altrui partecipazione, mentre nell’ipotesi inversa, in cui il primo offerente indicasse un sovrapprezzo, potrebbe comunque lucrare vendendo vantaggiosamente la propria partecipazione. Questo meccanismo, appunto strutturale, in quanto la determinazione di una parte trova un riequilibrio nei poteri contrattuali riconosciuti alla controparte, impedisce di concludere che la fissazione del prezzo corrisponda al “mero arbitrio” del primo dichiarante, il quale dovrà invece tenere conto di una serie di considerazioni di carattere oggettivo e, soprattutto, si espone al rischio della decisione finale della controparte. Non senza considerare, inoltre, che se il fondamento della nullità della condizione meramente potestativa viene riportato alla presenza del ”mero arbitrio” quale indice della mancanza di volontà di volersi seriamente obbligare, nel caso di specie il meccanismo di attivazione della clausola non riposa per definizione sulla mera volontà di chi vi fa ricorso, ma è a sua volta collegato al c.d. trigger event, ossia al verificarsi di una situazione di stallo societario che la stessa clausola deve predeterminare e che, per definizione, non dipende dal solo comportamento della parte che vi fa ricorso (o almeno non dovrebbe, ciò che però riporta a un eventuale abuso nell’utilizzo della clausole e non a un’illegittimità genetica della pattuizione). Anzi, come si è detto affrontando anche in chiave comparativistica la questione, è proprio nell’esigenza di superare una difficoltà obiettiva di blocco o stallo societario che potrebbe portare alla liquidazione societaria per l’impossibilità di perseguirne gli scopi statutari che si rinviene la meritevolezza degli interessi perseguiti, avendo il meccanismo strutturalmente imprevedibile di esito dello stallo proprio la funzione, indiretta, di spingere i due partner a collaborare nel perseguimento dell’impresa comune. Le medesime ragioni sono, poi, invocate anche in riferimento ai profili di determinazione (o determinabilità) dell’oggetto, ritenendo anche qui che la circostanza che l’oblato possa sia vendere la propria partecipazione che acquistare quella dell’altro allo stesso prezzo, impedisca ontologicamente che la parte per prima dichiarante possa operare una determinazione qualsiasi o addirittura assurda del prezzo. In questo senso, v’è anche chi individua proprio nel testo dell’art. 1349 cod. civ. un ulteriore indice di validità della clausola, da intendersi come meccanismo che lascia alla parte, ma non al suo mero arbitrio, la determinazione del valore e riserva al destinatario di tale dichiarazione se o come profittare della stessa. Si è, perciò, ritenuto che tale meccanismo di funzionamento, che deve fondarsi su un evento (lo stallo) indicato in contratto e non dovuto al mero comportamento della parte che invoca la russian roulette, determini, in realtà, il sorgere di un’obbligazione alternativa in capo all’oblato che, ex art. 1285 cod. civ., può liberarsi vendendo la propria partecipazione o acquistando quella del dichiarante. Mentre altra diversa, e forse preferibile, ricostruzione, riconduce tale maccanismo al riconoscimento negoziale di due opzioni put/call statiche (cioè senza possibilità di rilanci), ugualmente esercitabili da parte del socio oblato. Lungo questa stessa linea di pensiero si muove la posizione di chi ritiene che l’ordinamento consenta a una parte di determinare unilateralmente l’oggetto del contratto a condizione che ciò avvenga secondo parametri obiettivi di riferimento o, quantomeno, a condizione che il risultato ponga al riparo una parte dalle finalità meramente speculative dell’altra, giungendo a ritenere che sia lo stesso meccanismo di funzionamento della clausola di russian roulette a porre le parti in una situazione di reciproco equilibrio negoziale “non in forza di criteri normativi che escludono l’arbitrarietà del prezzo, bensì mediante l’attribuzione di un diritto potestativo all’oblato, costituito dalla facoltà di esercizio di un’opzione put o call che, a valle dell’offerta, fa da contraltare alla determinazione unilaterale del prezzo” . h. il patto leonino. Altro possibile punto di frizione della clausola in discorso con l’ordinamento interno è rappresentato dal divieto di “patto leonino”, posto dall’art. 2265 cod. civ., secondo cui “è nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite”. La nullità del patto è connessa alla natura dell'attività economica svolta dalla società e allo scopo perseguito, cioè quello dividersi gli utili (art. 2247 cod. civ.), cosicché se non vi è distribuzione degli utili tra tutti i soci, non c'è società, così come, parimenti, non può considerarsi partecipe della società quel socio che fosse totalmente esentato dai rischi connessi al verificarsi di perdite. Da notare, tuttavia, che la giurisprudenza di questa Corte ritiene che non rientrino nel divieto in parola quelle clausole che stabiliscono una partecipazione agli utili o alle perdite non proporzionale al valore della propria quota (Sez. 2, sent. n. 642 del 2000: “Il cosiddetto patto leonino, vietato ai sensi dell'art. 2265 cod. civ., presuppone la previsione della esclusione totale e costante del socio dalla partecipazione al rischio d'impresa o dagli utili, ovvero da entrambi. Esulano, pertanto, da tale divieto le clausole che contemplino la partecipazione agli utili e alle perdite in una misura diversa dalla entità della partecipazione sociale del singolo socio, sia che si esprimano in misura difforme da quella inerente ai poteri amministrativi, sia che condizionino in alternativa la partecipazione o la non partecipazione agli utili o alle perdite al verificarsi di determinati eventi giuridicamente rilevanti.”). V’è da dire, al riguardo, che diverso appare il profilo strutturale e funzionale della clausola di russian roulette rispetto alle clausole, anche parasociali, valutate come lesive dell’art. 2265 cod. civ., e ciò sia con riguardo al fatto che l’operatività della clausola non è immediata, ma rimessa alla circostanza che si verifichi uno stallo degli organi gestori o assembleari della società, predeterminato contrattualmente ma del tutto eventuale e, dall’altro, al già più volte citato meccanismo di funzionamento del procedimento di exit, che può “ritorcersi” nei confronti dello stesso soggetto che per primo abbia fatto ricorso alla clausola. Sotto altro profilo, va ricordato che, secondo Cass. Sez. 1, ord. n. 17498 del 2018 «è lecito e meritevole di tutela l'accordo negoziale concluso tra i soci di una società azionaria, con il quale l'uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l'altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l'attribuzione del diritto di vendita (c.d. "put") entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell'acquisto, pur con l'aggiunta di interessi sull'importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società». Peraltro, si è osservato in dottrina come la differenza fra clausola di put option e di russian roulette sia assolutamente dirimente e tale da rimuovere in radice il possibile contrasto con l’art. 2265 cod. civ., in quanto, “con la clausola di roulette russa, invece, quantomeno in astratto, non si opera alcuna alterazione della causa societatis. Anzi, i soci la stipulano al fine di pervenire ad una risoluzione, per quanto drastica, di uno stallo gestionale, di un altrimenti irresolubile contrasto nella determinazione e prosecuzione dell'attività imprenditoriale. Risulta pertanto evidente come questi, lungi dall'essere, in virtù della clausola, deresponsabilizzati nell'esercizio dei diritti sociali, appaiano pienamente coinvolti nella gestione societaria, sia sotto il profilo del rischio economico che del potere di gestione”. i. Il valore congruo della partecipazione. Sotto diverso profilo, parimenti legato tuttavia alla valutazione di meritevolezza della clausola in esame, viene in considerazione la necessità che la stessa individui o meno un floor minimo, inteso a garantire una congrua valorizzazione della partecipazione del socio uscente. Tale tesi, più in particolare, ravvisa nelle disposizioni in tema di socio recedente (art. 2437 cod. civ.) o di riscatto forzoso (art. 2437-sexies cod. civ.) i dati normativi paradigmatici da cui desumere l’esistenza del principio. Tale argomentazione appare respinta dalla maggioranza della dottrina che si è occupata della questione. V’è in primo luogo da ricordare la posizione di chi rileva come tale argomento sia frutto di un’indebita sovrapposizione fra la clausola di drag along e quella di russian roulette, fra le quali non intercorrerebbe una vera analogia. In realtà, l’unico elemento in comune, si afferma, riguarda l’uscita del socio dalla compagine sociale, mentre assai diversa sarebbe la funzione delle due clausole: “la prima consente, per un verso, al socio di maggioranza di agevolare la cessione laddove il possibile acquirente non intenda effettuare l’investimento se non acquistando l’intero capitale sociale (con ciò, peraltro, consentendo al socio di minoranza di condividere un prezzo di realizzo che incorpora in sé anche il valore di controllo); la seconda è invece tesa a risolvere ipotesi di stallo decisionale, riallocando l’intero equity in capo ad un solo azionista (e con ciò superando lo stallo senza addivenire ad una fase di scioglimento e liquidazione della società”. Questo indirizzo peraltro, rileva ulteriormente, che nella clausola di drag along vi è un socio di minoranza da tutelare perché “trascinato”, mentre nel caso della clausola antistallo in esame, in primo luogo, non vi è nessun socio di minoranza, in quanto i due soci hanno una partecipazione identica; inoltre, a ben vedere, mentre il socio di minoranza è in una posizione di soggezione rispetto all’esercizio della drag along clause, non così appare nel caso della russian roulette, “in quanto la decisione ultima (se vendere o acquistare) spetta a colui che è compulsato dall’iniziativa, non a colui che l’assume”. Da menzionare, ancora, l’orientamento che ritiene come, al di là degli aspetti funzionali o strutturali, un problema di applicabilità dell’art. 2437-sexies c.c. alla russian roulette clause abbia una sua ragion d’essere solo allorché essa sia inserita nello statuto, mentre non possa essere sollevato laddove si tratti di una clausola di un patto parasociale, stante la sua valenza puramente obbligatoria e l’assenza di tutela “reale” in caso di inadempimento. l. Russian roulette clause fra rispetto della buona fede e abuso del diritto. È certamente possibile che anche la clausola di russian roulette possa dare luogo ad abusi e che pertanto il suo esercizio soggiaccia all’applicazione dei principi generali di correttezza e buona fede. Si è già notato, da questo punto di vista, come la dottrina e la giurisprudenza nordamericana evidenzino, da un lato, l’esigenza di discovery da parte del socio che fa ricorso alla clausola, in modo che chi riceve la notifica di deadlock e l’indicazione del prezzo offerto abbia gli elementi conoscitivi per poter decidere consapevolmente se vendere od acquistare la partecipazione e, come, allo stesso tempo, una particolare attenzione debba essere riservata ai casi in cui vi sia una forte divergenza economico-finanziaria fra le parti, a evitare che un soggetto possa abusare della clausola per espellere l’altro partner anche di fronte a una situazione di stallo non effettiva o unilateralmente imposta, dando luogo a quella che è chiamata lack of choice (ossia la perdita di quel potere di scelta in capo all’oblato che fonda sul pianto strutturale l’equilibrio della clausola rendendo incerto al dichiarante quale sarà l’esito del meccanismo da lui stesso azionato). Ove tali condotte fossero in concreto ravvisabili, in dottrina si è ipotizzato che l’oblato possa fruire di tutela risarcitoria per i danni che abbia subito dalla estromissione iniqua dalla società e che lo stesso possa anche impedire il meccanismo attivato dall’altro socio attraverso l’opposizione dell’exceptio doli generalis, con la quale paralizzare, anche in via cautelare, l’altrui attivazione della clausola di russian roulette. Si è, poi, osservato che se la situazione di “stallo” fosse artatamente creata dal soggetto intenzionato a esercitare in mala fede la buy/sell provision, il rimedio potrebbe anche consistere nell’annullamento della delibera negativa oppure, secondo altra prospettazione, nella stessa rideterminazione giudiziale dell’esito della votazione. Un’ulteriore possibilità di tutela ipotizzata è rappresentata, poi, secondo diversa opzione interpretativa, dalla sanzione dell’inefficacia dell’atto realizzato attraverso l’abuso (così, nella fattispecie ipotizzata, nell’inefficacia dell’atto traslativo della partecipazione societaria), considerando tale opzione come più tutelante rispetto a quella puramente risarcitoria. m. Il ricorso. Le premesse teoriche sinora esaminate comportano, nella specie, che il ricorso non possa trovare accoglimento. m1) Il primo motivo lamenta: «Violazione rilevante ex art. 360, n. 3, c.p.c.., degli artt. 1346-1349 c.c., in relazione all’art. 1325, n. 3, e 1418, 2° co., c.c., nonché di principi consolidati nella nostra giurisprudenza, per aver ritenuto che la determinazione dell’oggetto del contratto possa essere rimessa al mero arbitrio di una delle due parti, assumendo l’esistenza di un meccanismo interno della clausola (incentrato sulla facoltà della parte oblata di scegliere se vendere o comprare), tale da escludere – in astratto ed a prescindere dalle peculiarità della fattispecie concreta (che escludevano, in concreto, la possibilità di comprare e consentivano la sola vendita) – la determinazione di un prezzo arbitrario.» La censura, nella sua sostanza, lamenta che il giudice di appello abbia inspiegabilmente ignorato la rilevanza, agli effetti della validità della clausola, delle informazioni relative alla concreta capacità economica e finanziaria della controparte, che facilmente avrebbero consentito alla parte economicamente e finanziariamente più forte – nella specie Fintecna, che sarebbe stata al corrente delle difficoltà di controparte, su questo piano, sin dal momento della instaurazione del rapporto e comunque nel momento in cui la clausola è stata attivata – di tenere comportamenti marcatamente opportunistici e realizzare profitti ingiustificabili. Per questa ragione sarebbe stata necessaria la previsione di parametri oggettivi cui ancorare la determinazione del prezzo da parte di Fintecna. Il motivo è infondato. La Corte di appello non ha affatto trascurato il profilo dedotto dalle ricorrenti; ne ha piuttosto escluso la sussistenza in fatto, nonché la rilevanza in diritto, quale ragione di nullità del patto, se riferito alle difficoltà di SCE insorte negli anni successivi alla stipula dell’accordo. Queste ultime infatti – ha osservato la sentenza impugnata – giammai avrebbero potuto rilevare sul piano genetico, ma semmai su quello funzionale, dell’esecuzione dell’accordo stesso giustificando, eventualmente, solo una pretesa risarcitoria. La criticità da evitare, come ben evidenzia la sentenza impugnata, che ha costituito la ragione pratica dalla stipulazione della clausola, dipendeva dalla circostanza che il capitale sociale di Quadrante era detenuto in misura paritaria da due soli soci: con ogni immaginabile conseguenza in tema di funzionalità dell’assemblea e, per esteso, con possibile determinazione di una situazione di stallo potenzialmente determinante addirittura lo scioglimento della società. Tanto ciò è vero che nel patto parasociale di cui si discute, la clausola di gran lunga prevalente, tanto da far ritenere che in essa si esaurisse l’intero interesse dei due unici soci stipulanti, era proprio quella “antistallo”. E la Corte territoriale, nella sentenza impugnata, dedica ampia motivazione a sostegno dell’affermato interesse reciproco dei due soci a inserire tale clausola nel patto, siccome corrispondente, per l’appunto, al comune interesse di evitare il possibile stallo del funzionamento dell’assemblea, per effetto della contrapposizione di paritetico peso nell’esercizio dei diritti di voto, pervenendo quindi a negare in fatto ogni preteso “unilaterale arbitrio” nella determinazione del contenuto della clausola. In diritto, la sentenza impugnata è giunta correttamente a negare ogni possibile conseguenza sulla validità della pattuizione. E tanto appare in linea con le sopra esposte premesse teoriche dell’istituto, secondo cui, ove la clausola russian roulette sia contenuta in un patto parasociale, l’avvenuta pattuizione a opera delle parti esclude in radice che si possa parlare di abusività genetica della previsione, in quanto avente precipua funzione organizzativa all’interno della società; abusività che sarebbe astrattamente predicabile solo in ipotesi di clausola contenuta nello statuto della società, e perciò imponibile al socio non in forza di un’autonoma pattuizione, bensì come mera conseguenza dell’ingresso in società; ipotesi, tuttavia, estranea al caso di specie. m2) Il secondo motivo lamenta: «Violazione rilevante ex art. 360, n. 3, c.p.c., di consolidati principi nella nostra giurisprudenza in tema di disciplina applicabile ai contratti atipici (ed applicazione analogica a questi ultimi della disciplina dettata per i contratti tipici) e, segnatamente, del principio di equa valorizzazione della partecipazione sociale, dettato in tema di società per azioni dagli artt. 2437 ter c.c. e 2437 sexies c.c., da estendere necessariamente al caso della Russian Roulette Clause a prescindere dal fatto che quest’ultima sia contenuta nello Statuto ovvero in un separato Patto Parasociale, in specie quando si tratti di una società tra due soci e di un patto parasociale tra quei due stessi soci.» La censura, in buona sostanza, invoca un’applicazione analogica, alla russian roulette clause, del principio di equa valorizzazione delle azioni previsto in caso di recesso del socio (art. 2437-ter cod. civ.) e di riscatto delle azioni (art. 2437-sexies cod. civ.), alla stessa maniera in cui tale principio viene applicato normalmente alla c.d. clausola di trascinamento (drag along clause). Il motivo è infondato. Il principio di equa valorizzazione non può trovare applicazione, come si è visto, in presenza di una previsione di patto parasociale, e non di clausola statutaria vincolante in quanto tale; inoltre nella russian roulette clause non si è in presenza di una situazione di soggezione pura all’altrui diritto potestativo, che configuri quell’effetto espropriativo (del valore differenziale) a base dell’applicazione del principio in discussione, bensì in presenza di una facoltà di scelta da parte del soggetto oblato, la quale è incompatibile con tale effetto. m3) Il terzo motivo lamenta: «Violazione rilevante ex art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 1375 c.c. e 2 Cost., nonché di principi consolidati nella giurisprudenza in materia, per avere ritenuto che la contrarietà a buona fede e/o l’abuso del diritto, intesi anche in ragione del generale dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., presuppongono l’esistenza e la prova di un fine ultimo dell’azione fin dall’inizio dell’operare perseguito, nonché la prova di un danno, con il risultato ultimo di ritenere che, in difetto di tali prove e a prescindere dalla presenza di una situazione di dipendenza economica e di altri indici sintomatici di violazione della buona fede o di abuso, la fattispecie non possa dirsi configurata.» La censura sostiene che, erroneamente, la Corte territoriale abbia, a tal fine, ritenuto irrilevanti circostanze sintomatiche secondo la giurisprudenza, quali lo sfruttamento da parte di Fintecna della propria posizione di forza derivante dall’essere creditrice di SCE, e dato rilievo, al contrario, a circostanze irrilevanti, quali il mancato accertamento della dolosa preordinazione del comportamento di Fintecna ad acquisire una consistente plusvalenza o la mancata prova del prezzo non equo della partecipazione. Il motivo è inammissibile. Invero, i giudici di appello non hanno affatto considerato irrilevante, bensì radicalmente escluso in fatto, la sussistenza di un abuso da parte di Fintecna della propria posizione di creditrice. Né la sentenza impugnata attribuisce affatto rilievo dirimente alla dolosa preordinazione del comportamento di Fintecna al fine indicato dalle ricorrenti. Al contrario, essa si limita a smentire in fatto, sul punto, la tesi sostenuta dalle appellanti, là dove osserva (a pag. 33) che “Quanto sopra riportato … smentisce in via definitiva il fine ultimo perseguito da Fintecna secondo la ricostruzione offerta da parte appellante, ossia la consistente plusvalenza…”. Quanto, poi, alla equità del prezzo della partecipazione indicato da Fintecna, risulta dalla sentenza impugnata (pag. 22, sub v)) che, ancora una volta, si trattava di circostanza sintomatica dell’abuso e scorrettezza indicata dalle stesse appellanti. m4. Il quarto motivo lamenta: «Violazione rilevante ex art. 360, n. 3, c.p.c., dei principi consolidati della materia, di vicinanza della prova e di consulenza percipiente, nonché degli artt. 2697 c.c., 115, 116 c.p.c. e 24 Cost., per avere ritenuto – in presenza di una fattispecie caratterizzata dalla determinazione del prezzo rimessa ad una delle due parti – che l’onere della prova di dimostrare la natura non equa della valorizzazione così effettuata gravasse sulla parte esclusa dalla valutazione e che, peraltro, non fosse ammissibile la consulenza percipiente richiesta da quest’ultima proprio affinché venisse acquisita la natura non equa della valutazione in questione.» La censura, subordinata a quanto dedotto nel terzo motivo, lamenta l’illegittimità del diniego di CTU, sostenendo, sotto un primo profilo (principio di vicinanza della prova), che SCE non era in grado di “entrare nel merito della valutazione” del prezzo della partecipazione, nonostante avesse nominato la metà dei componenti del consiglio di amministrazione di Quadrante, perché tale valutazione non era stata fatta da quest’ultima, bensì dalla socia Fintecna, senza considerare i vincoli, gravanti sugli amministratori, di non divulgazione di quanto non risulti pubblicamente esposto nei bilanci di esercizio; e, sotto il secondo profilo (consulenza percipiente), che la Corte di appello avrebbe avuto l’obbligo, nel contesto dato, di disporre la CTU. Il motivo è inammissibile. Quanto al primo profilo, non ha alcun rilievo che la determinazione del prezzo della partecipazione di cui trattasi sia stata effettuata, ovviamente, da Fintecna e non dal consiglio di amministrazione di Quadrante. Ciò che rileva, invece, è che la Corte territoriale ha accertato, in fatto, che le ricorrenti, in quanto titolari della partecipazione in Quadrante, disponevano dei dati necessari ai fini della valutazione di cui trattasi. Quanto al secondo profilo, disporre una consulenza tecnica di ufficio non è un obbligo, bensì una facoltà discrezionale del giudice di merito. Le spese di lite di fase, liquidate come indicato in dispositivo, seguono la soccombenza. o. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto (Cass. S.U., n. 4315 del 20 febbraio 2020). P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna Sviluppo Centro Est s.r.l., Lamaro Appalti S.p.A. e CO.GE.SAN. S.p.A. a rifondere a Fintecna S.p.A. le spese della presente fase di legittimità, che liquida in complessivi euro 40.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento e agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.