Gli ermellini si sono pronunciati sostenendo la configurabilità del reato di violenza privata, di cui all’articolo 610 del Codice Penale, nel caso del giornalista che intenda procacciarsi la notizia utilizzando modi insistenti e aggressivi nei confronti del proprio intervistato.
Il fatto
La Corte Suprema di Cassazione, Sez. 5, Penale, 12 aprile 2023 – 31 agosto 2023, n. 36407 ha emesso la propria sentenza condannando il giornalista de "Le Iene", noto programma televisivo di approfondimento e inchieste, per un servizio realizzato nel 2015.
Adottando il metodo che contraddistingue il programma tv, il giornalista si è introdotto nell’abitazione dell'interessato, accompagnato dal cameraman e invocando il suo “diritto all’inchiesta” nel cercare la verità sugli episodi di accesso abusivo informatico, intercettazione illecita di comunicazione e violazione della corrispondenza per aver sottratto alcune fotografie ritraenti Elisabetta Canalis e George Clooney e per cui questi era a processo come indagata.
Dopo l’excursus processuale, durante il quale Luigi Pelazza è stato condannato nei precedenti due gradi di giudizio del reato di cui all’art. 610 c.p., ovvero di violenza privata per le modalità insistenti, minacciose e oppressive esercitate nell’ottenere dichiarazioni da Guia Soncini, la Corte di Cassazione lo scorso 31 agosto 2023 (Rel. Bifulco, Pres. Pezzullo) ha condannato con sentenza definitiva il giornalista del programma televisivo di approfondimento e inchieste.
Cosa dice la sentenza
I giudici della Corte di Cassazione hanno confermato la condanna già emessa nei precedenti gradi di giudizio nei confronti del giornalista televisivo del noto programma irriverente d'inchiesta "Le Iene", per il reato di violenza privata e pronunciandosi anche con riguardo alla scriminante invocata del diritto di cronaca.
Secondo la Corte, deve ritenersi configurato il reato poiché “sussiste l’elemento oggettivo della violenza privata nell’esercizio di una reiterata, insistente e oppressiva pressione esercitata sulla persona dell’intervistata per il tramite dell’imposizione di domande, di riprese video e di posture fisiche, cui la persona offesa tentava invano di sottrarsi".
Ma la Corte prosegue, "costringendo la vittima a un “pati” (ovverosia a tollerare od omettere una condotta determinata), può certo ricondursi a quella peculiare forma di violenza privata indicata dalla giurisprudenza quale violenza “impropria”, vale a dire un tipo di coartazione dell’altrui libertà che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali”.
Invece, con riferimento all’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca, ad avviso dei giudici “rileva solo in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia e non anche rispetto ad eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia, come affermato in un caso nel quale è stata esclusa la configurabilità della scriminante per il giornalista che, utilizzando false generalità, si era introdotto in una struttura medica per acquisire notizie per la realizzazione di un servizio televisivo”.
E proprio in merito alla posizione del giornalista, continua la sentenza, “avrebbe ben potuto limitarsi a dare l’unica notizia possibile: ossia che l’interessata, richiesta di fornire una propria versione dei fatti, si era rifiutata. Pensare che la ricerca delle notizie possa spingersi sino al sacrificio della libertà personale di qualunque potenziale fonte significa supporre un potere inquisitorio persino superiore a quello del quale la pubblica autorità è dotata nel caso di commissione di reati”.
Testo integrale
La sentenza completa è consultabile Corte di Cassazione, Sez. 5, Penale, sent. 31 agosto 2023, n. 36407