video suggerito
video suggerito
28 Febbraio 2024
11:00

Anche in assenza di mobbing va accertata una eventuale responsabilità del datore di lavoro per ambiente stressogeno: lo ha stabilito la Cassazione

La Cassazione ha stabilito che, anche se non si accerta la sussistenza del mobbing in ambito lavorativo, il giudice deve comunque accertare se sussiste una responsabilità del datore di lavoro per non aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore ed evitare che lo stesso sia vittima di un ambiente caratterizzato da una condizione stressogena.

21 condivisioni
Anche in assenza di mobbing va accertata una eventuale responsabilità del datore di lavoro per ambiente stressogeno: lo ha stabilito la Cassazione
Avvocato
Immagine

La Corte di cassazione, sezione lavoro, con ordinanza del 12 febbraio 2024, n. 3822 ha delineato un importante principio di diritto.

La Cassazione ha infatti stabilito che, anche se non si accerta la sussistenza del mobbing in ambito lavorativo, il giudice deve comunque accertare se sussiste una responsabilità del datore di lavoro per non aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore ed evitare che lo stesso sia vittima di un ambiente caratterizzato da una condizione stressogena.

Vediamo in dettaglio la questione.

I fatti di causa

La ricorrente aveva impugnato la sentenza con cui la Corte d'Appello di Milano, in riforma della decisione di primo grado del Tribunale di Monza, aveva rigettato la domanda volta a ottenere il risarcimento dei danni da lei subiti a causa di comportamenti vessatori posti in essere nei suoi confronti da personale del MIUR, alle cui dipendenze aveva prestato servizio come assistente amministrativa.

Il Tribunale di Monza aveva infatti ravvisato la sussistenza di un'ipotesi di mobbing verticale e riconosciuto alla ricorrente il diritto al risarcimento dei danni alla salute e non patrimoniali diversi dal biologico, liquidati in complessivi Euro 16.000.

La Corte d'Appello aveva invece negato che vi fossero "elementi in base ai quali ritenere la sussistenza di singole condotte vessatorie…, né tantomeno per ritenere di essere in presenza di un'ipotesi di mobbing".

La sentenza della Corte d'appello di Milano è stata oggetto di ricorso in Cassazione.

La sentenza della Corte di cassazione

I motivi di ricorso, ha specificato la Corte di cassazione, "convergono nel censurare un'errata interpretazione, da parte della Corte d'appello, della nozione di mobbing quale fatto illecito e inadempimento contrattuale del datore di lavoro, così come essa è delineata nella giurisprudenza di legittimità in applicazione degli artt. 2043 e 2087 c.c".

Secondo la Corte, "In questi termini, il ricorso è fondato, perché nella sentenza impugnata effettivamente si riscontra una valutazione meramente atomistica dei singoli comportamenti indicati dalla ricorrente come rivelatori del mobbing e, a parte alcune dichiarazioni di ossequio formale al principio, manca del tutto una valutazione complessiva del quadro risultante dall'insieme di quei comportamenti. Inoltre, con riguardo alla posizione del datore di lavoro, manca completamente il doveroso esame, una volta escluso un comportamento attivo integrante il mobbing, della possibilità che dai medesimi fatti emerga comunque una responsabilità da inadempimento inattivo dell'obbligo di "adottare … tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale" della lavoratrice".

I fatti che, secondo il giudice di primo grado, integrano gli estremi della fattispecie del mobbing, sono i seguenti:

  • "il trasferimento all'ufficio archivi al rientro da un periodo di malattia;
  • le condizioni fatiscenti dell'archivio;
  • la rimozione della porta e delle veneziane dalle finestre dell'archivio;
  • l'assegnazione a mansioni differenti e "piuttosto elementari e ripetitive";
  • le modalità di controllo dell'orario lavorativo;
  • il diffuso modo di fare aggressivo e denigratorio della dirigente scolastica e della dirigente dei servizi generali e amministrativi".

Ha precisato la Cassazione che, "A tale elenco segue poi un esame analitico di ogni singolo comportamento, che tende ad escludere una illiceità individuale, ma non è completato dalla necessaria valutazione complessiva al fine di trarne un giudizio motivato sulla prospettata finalizzazione, sistematica e protratta nel tempo, alla persecuzione e all'isolamento della lavoratrice".

Ha dunque ricordato la Corte di cassazione che, nell'accertamento del mobbing, "l'elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell'intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto…; a tal fine la legittimità dei provvedimenti può rilevare, ma solo indirettamente perché, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell'assenza dell'elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata" (Cass. n. 26684/2017).

In altri termini, per la Corte, "così come una pluralità di comportamenti illegittimi non implica, di per sé, il mobbing, allo stesso modo la legittimità di ogni singolo comportamento non esclude l'intento vessatorio".

Inoltre, anche nel caso in cui dovesse essere confermata l'assenza degli estremi del mobbing, "non verrebbe comunque meno la necessità di valutare e accertare l'eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute della ricorrente".

Infatti, "è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori…, lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all'art. 2087 cod. civ." (Cass. 3692/2023, che cita a sua volta Cass. n. 3291/2016).

In definitiva, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso e cassato con rinvio la sentenza impugnata alla Corte d'Appello di Milano, in diversa composizione, per decidere, attenendosi al seguente principio di diritto: "ai fini dell'accertamento dell'ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice del merito deve procedere alla valutazione complessiva, e non meramente atomistica, dei fatti allegati a sostegno della domanda, al fine di verificare la sussistenza sia dell'elemento oggettivo (pluralità continuata di comportamenti dannosi), che dell'elemento soggettivo (intendimento persecutorio nei confronti della vittima); in caso di accertata insussistenza del mobbing, il giudice del merito deve comunque accertare se, sulla base dei fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un'ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, erano necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore; nell'apprezzare la sussistenza di un danno alla salute e del nesso causale tra questo e l'ambiente di lavoro, il giudice non può prescindere da un esame critico delle risultanze della svolta c.t.u. medico legale per affidarsi esclusivamente a proprie intuizioni e convinzioni personali su aspetti il cui apprezzamento richiede particolari competenze tecniche".

In pratica, la Corte ha tracciato un importante principio: anche se non si accerta la sussistenza del mobbing, il giudice deve comunque accertare se sussiste una responsabilità del datore di lavoro per non aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

Laureata con lode in giurisprudenza presso l’Università degli studi di Napoli Federico II. Ho poi conseguito la specializzazione presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali, sono stata collaboratrice della cattedra di diritto pubblico comparato e ho svolto la professione di avvocato. Sono autrice e coautrice di numerosi manuali, alcuni tra i più noti del diritto civile e amministrativo. Sono inoltre autrice di numerosi articoli giuridici e ho esperienza pluriennale come membro di comitato di redazione. Per Lexplain sono editor per l'area "diritto" e per l'area "fisco". 
Sfondo autopromo
Segui Lexplain sui canali social
api url views